Norvell strinse gli occhi, disperatamente, in un parossismo di pentimento e di umiliazione. Caro, vecchio Arnie, un amico così fedele! Preoccupato di non fargli fare brutta figura, di fronte agli altri ingegneri, quando sarebbe stato così semplice far loro pensare le cose peggiori, cavandosela personalmente senza alcun biasimo.

«Be', così è il mondo, Norvell,» proseguì Arnie. «Io non ti do alcuna colpa. Non pensarci più. Non posso biasimarti, se poni innanzi a tutto i tuoi problemi personali.» Guardò ostentatamente l'orologio. «Non voglio trattenerti,» disse. «In ogni caso, è meglio che ora io ritorni alla sede del partito; mio fratello vuole consultarmi, a proposito di una certa faccenda. Oh, non è una cosa eccezionale, credo... ma è dovere di ogni cittadino, naturalmente, fare tutto il possibile per il suo partito.» Lasciò cadere una banconota sul tavolo, e pilotò Norvell verso la porta.

Davanti all'entrata del locale, diede un'amichevole pacca sulla spalla di Norvell.

«Spero che tu voglia scrivermi due righe, di quando in quando,» lo esortò. «Io sono un pessimo corrispondente, ma sarò sempre felice di sapere come te la cavi.»

Norvell si fermò, improvvisamente, come paralizzato; la pioggia portata dal vento li sferzò, fredda e implacabile.

«Scriverti, Arnie?» domandò, in tono urgente. «Ma ci vedremo pure, no?»

«Ma certo.»Dworcas corrugò la fronte, e rabbrividì, sotto la pioggia. Spiegò, in tono estremamente paziente. «Il fatto è che, naturalmente, tu non vorrai fare troppo spesso tutta quella strada da Torcibudella a qui. Accidenti, non posso certo biasimarti, per questo! Capisco benissimo. E quanto a me, sarò molto occupato, alla sera, per mettere a posto quella faccenda, per mio fratello, così... Senti, Norvell, non ha senso rimanere qui, sotto la pioggia. Scrivimi due righe, quando ne avrai l'occasione. E buona fortuna, amico!» E se ne andò.

Norvell si avviò, stancamente, per le strade bagnate dalla pioggia. Con la carta di credito annullata, e senza un centesimo in tasca, la strada di ritorno a casa fu lunga e fredda e bagnata. Dopo il secondo isolato, ebbe la tentazione di tornare indietro, e di chiedere ad Arnie di pagargli una corsa in tassì; ma, dopotutto, si disse, non poteva fare una cosa simile, quando Arnie era stato così gentile con il fatto dei biglietti, e così delicato per tutto il resto.

Così, ebbe tutto il tempo per prepararsi a parlare con Virginia.

 

E le parlò.

Quando ebbe finito, fissò sua moglie, più stupito che sollevato. La lunga camminata verso casa, sotto la pioggia e nel vento, era stata un inferno di apprensione. Forse lei si sarebbe messa a urlare. Forse gli avrebbe lanciato contro degli oggetti. Lo avrebbe magari investito con un torrente di contumelie... epiteti infamanti, crudeli, colpi sotto la cintura che avrebbero lasciato il segno, dai quali non si sarebbe ripreso.

Ma non accadde niente di tutto ciò.

Fortunatamente, Alexandra stava già dormendo; con lei intorno, sarebbe stato molto più difficile. Si cambiò gli abiti fradici, senza dire una parola a sua moglie, ridiscese, la guardò negli occhi, e le disse tutto... direttamente e brutalmente.

Poi aspettò. E l'esplosione non venne. Virginia pareva, addirittura, una persona che non avesse sentito nulla. Rimase seduta lì, immobile, con il volto inespressivo, e passò lentamente le dita sul morbido bracciolo della poltrona, come in una carezza. Si alzò, e si diresse al quadrante di decorazione delle pareti, sempre in silenzio. Segno inconfondibile della sua trascuratezza come padrona di casa, le pareti erano ancora decorate con l'allegro disegno della mattinata. Con dita gentili rimise le pareti su una lucente tonalità rosa antico, e abbassò le luci a un intimo e romantico color ambra. Si avvicinò a un muro, e lo trasformò in uno specchio, e rimase per molto tempo a rimirarsi. Anche Norvell la guardò. In quella luce soffusa la sua pelle appariva dorata e liscia e perfetta, e tutte le rughe di espressione parevano magicamente scomparse.

Poi Virginia sedette sul pavimento tiepido e morbido, e incominciò a piangere.

Improvvisamente, Norvell scoprì di essersi accoccolato a terra, accanto a lei.

«Ti prego, amore,» le disse. «Ti prego, non piangere.»

Lei non smise. Ma nemmeno lo respinse. Nervosamente, Norvell la cullò tra le braccia, e lei appoggiò il capo sul suo petto. Riuscì a parlare in un modo che, prima, non gli era mai riuscito. Sarebbe stato duro, naturalmente. Ma sarebbe stato reale. Sarebbe stata una vita sopportabile, per degli esseri umani... in fondo, non c'erano migliaia di persone nelle stesse condizioni? Forse per loro le cose erano state troppo semplici, fisicamente, forse era necessaria la pressione delle circostanze e delle avversità per saldare veramente due personalità, forse il loro matrimonio sarebbe diventato qualcosa di più grande, di bello, forse tutto sarebbe cambiato in meglio...

Dall'alto delle scale, giunse la risatina ironica di Alexandra.

Norvell si rialzò di scatto. La ragazza disse, ironicamente, con la scoperta intenzione di provocarlo:

«Ma bene! Scusatemi! Non potevo neppure lontanamente sognare che qui si stesse svolgendo una scena intima,proprio tra voi due

Virginia si alzò in piedi, fulmineamente, facendo barcollare Norvell. Alzandosi in piedi a sua volta, Norvell si sentì avvampare.

Deglutì, e fece uno sforzo.

«Sandy,» le disse, gentilmente, usando quel diminutivo quasi dimenticato, che era sembrato tanto più appropriato quando Alexandra era stata una bambina piccola e ricciuta, e non una piccola put... no, calma! «Sandy, per favore, scendi. Ho una cosa importante da dirti.»

Virginia rimase immobile, inespressiva. Norvell capì che anche lei stava facendo uno sforzo, e le fu riconoscente, per questo, e l'amò ancora di più.

La ragazza scese le scale, con la sua andatura sciatta, indossando la vestaglia troppo ricercata, chiusa da una disordinata spilla. Norvell incominciò, con fermezza:

«Sandy...»

Il volto della ragazza era più vecchio della sua età, duro e altezzoso.

«Per favorelo interruppe. «Lo sai cosa ne penso di quell'umiliante nomignolo.»

Norvell cercò ancora di controllarsi.

«Non volevo...» cominciò, a denti stretti.

«Certo, tu non volevi fare niente. Non volevi svegliarmi con il tuo frastuono da ubriaco su per le scale, vero? Non volevi che io e Virginia passassimo ore di terrore,senza neppure disturbarti a farci sapere che saresti rimasto fuori fino a tardi.» Lanciò un'occhiata di sbieco a sua madre, in cerca di approvazione. Virginia si stringeva freneticamente le mani.

Norvell disse esasperato:

«Volevo solo dirti una cosa.»

«Qualunque cosa tu possa dire adesso non servirà a niente.»

«No?» le urlò Norvell, abbandonando ogni tentativo di controllo. «Be', allora ascoltami lo stesso, accidenti a te! Ce ne andiamo a Torcibudella! Tutti... domani mattina! Questo significa qualcosa, per te?»

Finalmente Virginia disse, con una sfumatura di nervosismo nella voce:

«Non c'è bisogno che tu ti metta a gridare con la bambina.»

Quello fu il colpo di grazia. Lui sapeva perfettamente che Virginia non aveva inteso dire niente di simile, ma furono le sue ghiandole a rispondere, non il suo ragionamento:

«Così io non ho bisogno di gridare, con lei... perché lei non è sorda come me, vero? Oh, la mia moglie fedele! Oh, la mia affezionata famiglia!»

«Non intendevo dire niente di simile!» gridò Virginia.

«Già, non intendi mai dire niente!» ruggì Norvell, dominando lo stridulo contributo di urli che stava fornendo Alexandra.

Virginia urlò, a sua volta:

«Lo sai benissimo che non intendevo dirlo, ma vorrei averlo fatto! E tu hai il coraggio di farti chiamare marito! Non sei nemmeno capace di provvedere a una famiglia, tu!»

Andarono avanti così, fin quasi all'alba.

 

CAPITOLO X

 

Charles Mundin disse:

«Grazie per aver tirato fuori Bligh, Del.»

Dworcas disse, affabilmente:

«Accidenti, quando posso è un piacere. Inoltre, è un amico del piccolo. E adesso, cos'hai in mente?»

Mundin disse:

«Le Case G.M.L. Del, credo che tu mi abbia dato qualcosa d'importante. Se funziona... Be', ti assicuro che non lo dimenticherò.»

«Sicuro, Charles. Senti, si sta facendo tardi, e ho un paio di cose da sbrigare.»

«Sarò breve. Queste elezioni, Del... lasciamene fuori, vuoi? Voglio dire, in realtà tu non hai bisogno di nuovi scrutatori. E sai benissimo che il compenso mi farebbe comodo... ma, semplicemente, non ho il tempo.»

Dworcas lo fissò, con aria calcolatrice, e prese una decisione. Gli rivolse un largo sorriso.

«Accidenti, Charles... perché diavolo dovrei intralciare i tuoi progetti? Prendi al volo questo affare, se pensi che sia buono. Non dico che questo sia semplice... sono a corto di aiutanti, sai, e ho dovuto perfino chiedere aiuto al mio fratellino. Dio sa che di politica Arnie non se ne intende, ma dovrebbe essere capace, almeno, di trascrivere dei risultati. Così pensi che questo affare delle G.M.L. sia una cosa seria?»

Charles fece per rispondere, ma uno dei factotum di Dworcas mise dentro la testa. Si avvicinò, e bisbigliò qualcosa all'orecchio di Del.

Dworcas si scusò:

«Spiacente, Charles, ma è arrivato Jimmy Lyons; devi scusarmi per un momento.»

In realtà, non fu molto di più di un minuto, anche se, quando Dworcas ritornò, stava camminando molto lentamente. Non guardò Mundin.

Mundin disse:

«Sì, credo che si tratti di una cosa seria. In ogni caso, farò il possibile per approfittarne.»

Dworcas disse, rivolgendosi al muro:

«Mi chiedo se tu stia facendo una cosa giusta.»

Mundin trasalì, sorpreso.

«Che cosa vuoi dire?»

Dworcas si strinse nelle spalle.

«Be', è una faccenda molto seria quella di esercitare la professione in un ramo per il quale non sei autorizzato. Sono affari tuoi, Mundin. È solo che mi dispiacerebbe vederti finire nei guai.»

Mundin disse:

«Aspetta un momento, Del! Cosa significa? L'idea non è stata tua?»

Dworcas disse, freddamente:

«Preoccupato, Mundin? Cerchi di scaricare la responsabilità sulle mie spalle?» Sollevò il telefono, con un gesto chiaramente di congedo. «Vorresti andartene? Ho da fare.»

 

La cosa diede da riflettere a Mundin mentre ritornava a casa, e anche il mattino dopo, quando si svegliò.

Gli diede ancor più da pensare, quando si presentò puntualmente al Palazzo di Giustizia. Entrò, rivolgendo un cenno di saluto al poliziotto di servizio, e lo sguardo del poliziotto parve attraversarlo, come se Mundin fosse stato fatto d'aria. Disse allora all'assistente cancelliere, allo sportello:

«Cosa c'è di nuovo, Abe? Come stanno i bambini?»

E il cancelliere borbottò qualcosa, e chiuse rumorosamente lo sportello.

Ormai, Mundin aveva cominciato a rendersi conto dell'atmosfera. Si arrabbiò, e fu pervaso da una fredda determinazione. Si mise in fila, allo sportello vicino, e chiese i documenti dei quali aveva bisogno. Restituì il fascicolo sbagliato, che gli venne consegnato per primo; protestò, mostrando che una buona metà dei documenti mancavano, dal fascicolo giusto, quando finalmente arrivò. Rimase seduto per due ore nell'anticamera della Cancelleria, fino a quando la segretaria entrò e disse, con evidente ostilità:

«Il signor Cochrane è fuori, a pranzo. Non tornerà, per oggi.»

Mundin scrisse un regolare reclamo sul modulo che la segretaria gli diede, con malagrazia, sostenendo che era stato illegalmente ostacolato nel suo tentativo di esaminare i documenti pubblici della Società Case G.M.L., e, ostinatamente, lo consegnò alla ragazza, sapendo benissimo cosa ne sarebbe stato del modulo, non appena lui fosse uscito dalla porta. Il modulo finì nel cestino della carta straccia prima ancora che lui fosse uscito dalla porta, e allora lui si voltò, rabbiosamente, per protestare.

 

Il poliziotto di servizio era proprio accanto a lui, e aveva un'espressione avida. Mundin ritornò nel suo ufficio, per riflettere e riordinare le idee.

Quattordici miliardi di dollari...

Ma come diavolo facevano a sapere le cose così in fretta? Non certo da Dworcas, di questo Mundin ne era sicuro; sarebbe stato pronto a giurare che Dworcas non sapeva che la faccenda era scottante, fino a quando Jimmy Lyons non lo aveva fatto chiamare fuori dell'ufficio. Ed era stato Dworcas ad affidare la faccenda a Mundin, inizialmente. Perché... Mundin arrossì di collera al pensiero, quasi certo di essere nel giusto... perché Dworcas era stato convinto che un avvocato da quattro soldi, e senza clienti, come lui, non sarebbe mai riuscito ad aiutarli, in nessun modo? E in questo caso, perché aveva cambiato idea?

Mundin diede un calcio alla Segretaria Insonne, e cominciò a camminare su e giù per la stanza. In tono squillante la Segretaria Insonne annunciò che la signora Mundin avrebbe pagato il saldo di quanto dovuto entro venerdì.

Si mise a sedere alla scrivania. Bene, così la faccenda sarebbe stata dura. Era prevedibile. Cos'altro avrebbe potuto attendersi? E più tentavano di rendergli dura la vita, più erano spaventati... questo era evidente. E più spaventati erano, quei signori delle Case G.M.L., più probabilità c'erano che quella faccenda fosse seria, e giungesse in porto. E in questo modo, l'avvocato Charles Mundin era ormai sulla soglia del diritto civile.

Prese un pezzo di carta, e cominciò a fare dei piani. Avrebbero potuto rendergli dura la vita, ma non avrebbero potuto fermarlo. Poteva ottenere un'ingiunzione della corte, per consultare i documenti; si trattava della partenza più ovvia, se non altro per assicurarsi che i Lavin avevano realmente le carte in regola; e fino a quando Norma Lavin fosse stata disposta a chiamarlo suo rappresentante legale di fatto, non avrebbero potuto sbatterlo fuori. Ci sarebbero stati degli intralci, in tribunale, e un certo rallentamento, naturalmente. Ma non avrebbero potuto metterci più di un paio di giorni, e nel frattempo lui avrebbe potuto affrontare la questione da altre angolazioni. Il condizionamento di Don... ci poteva essere l'appiglio per una denuncia penale, se lui riusciva a scoprire nomi, date e luoghi.

Prese il suo libretto di moduli, e cominciò a preparare il mandato di rappresentanza che Norma Lavin avrebbe dovuto firmargli. Lo avrebbe firmato, naturalmente; era una persona indipendente e, senza dubbio, difficile, ma non aveva altra scelta. Inoltre, pensò, distrattamente, tutta quella durezza, tutto quell'atteggiamento mascolino, potevano essere senza dubbio una forma esasperata di autodifesa. In circostanze simili, cosa ci si poteva aspettare?

Il telefono suonò; lui si affrettò a spegnere la Segretaria Insonne, e sollevò il ricevitore.

«Mundin,» disse.

La voce era vecchia, stanca, e completamente smarrita.

Sono Harry Ryan,» disse, tremante. «Norma... è scomparsa. Penso che lei debba venire qui, Mundin. Temo che l'abbiano rapita.»

 

CAPITOLO XI

 

Norvell era disteso su un blocco di ghiaccio. Continuava a tentare di spiegare a qualche enorme creatura che era davvero dispiaciuto per tutto, e che lui sarebbe diventato un buon figlio o marito o amico o tutto quello che si voleva da lui, se solo quell'enorme creatura lo avesse lasciato in pace. Ma l'enorme creatura, che non poteva certo essere il padre di Norvell, perché Norvell non riusciva nemmeno a ricordare suo padre, si limitò a mettersi la mano davanti alla bocca, e ridacchiò, guardando giù da un'interminabile scala, e poi, nel momento in cui Norvell se lo aspettava meno, si curvò, e lo schiaffeggiò sopra l'orecchio, e lo mandò a scivolare su quell'enorme blocco di ghiaccio, contro il volto sogghignante di Alexandra e i giganteschi, terribili denti di Virginia...

Norvell si svegliò.

Sentiva freddo, molto freddo, ed era indolenzito in tutto il corpo. Si guardò intorno, confuso. Era nel soggiorno. Ma...

Sì. Era il soggiorno. Senza le decorazioni delle pareti, e senza luce, all'infuori del livido chiarore dell'alba che proveniva dall'esterno. E tutte le pareti erano completamente trasparenti, e lui era disteso sul pavimento. Il letto, che era uscito obbediente dalla parete al suo comando, e sul quale si era addormentato, era rientrato nella sua base, scaraventandolo sul pavimento. E il pavimento era freddo.

Niente riscaldamento. Niente energia. La casa era disattivata.

Si alzò, socchiudendo gli occhi, e si diresse, senza speranza, ai comandi delle finestre. Porci. Disattivare la casa senza una parola di preavviso. I comandi delle finestre non risposero. Le finestre rimasero completamente trasparenti. E lui sapeva benissimo cos'era accaduto, e continuò a imprecare tra sé, a denti stretti. Lo avevano fatto all'alba, senza neppure concedergli la possibilità di...

Stancamente, cominciò a raccogliere i suoi indumenti dal pavimento, dove l'attaccapanni li aveva lasciati cadere, rientrando al suo posto, in posizione di riposo. Attraverso le pareti, scandalosamente trasparenti, egli vide le altre case a bolla, tutte rispettabilmente opache, con le sole luci notturne e quelle dell'ingresso accese, e, qua e là, una finestra rischiarata da una luce calda, ammiccante. Quando ebbe finito di vestirsi, cominciò a sentire dei rumori provenienti dal piano di sopra. Sua moglie e sua figlia piombarono giù in vestaglia, ordinandogli di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per rimediare.

«Vestitevi,» ordinò, e, con ostentazione, spense il suo apparecchio acustico.

Mentre esse obbedivano, egli cominciò ad aggirarsi per la casa. Distrattamente, cercò di ordinare il caffè, e rinunciò, ridendo della sua stupidità, quando notò che l'acqua non usciva. Gli armadi, i cassetti, e gli scaffali, avevano vomitato tutto il loro contenuto, al piano di sopra e al piano terreno. I congegni automatici avevano tranquillamente spinto fuori tutti gli oggetti, e gli sportelli si erano chiusi ermeticamente... per lui, per sempre. Contemplò il disordinato ammasso di vestiti e di utensili da cucina, e cominciò, stancamente, a riempire un baule.

Due poliziotti dall'aria annoiata entrarono, mentre lui stava facendo i bagagli; la porta, naturalmente, non costituiva più un ostacolo. Norvell accese il suo apparecchio acustico, senza troppa fretta. Si rivolse ai poliziotti, e disse:

«Be'?»

Loro gli dissero che aveva tutto il tempo; non avevano alcuna fretta. Prenditi anche un'ora se ti fa comodo, ragazzo. Lo avrebbero accompagnato, lui e la sua famiglia, e la loro roba, a Torcibudella, lo avrebbero aiutato a scegliere un buon posto. E... uh... non prendertela troppo calda, ragazzo. A volte, quando qualcuno perde il contratto, diventa... uh... nervoso, si lascia prendere dal panico e tenta, be', di farla finita. Brutti inconvenienti.

Il trasloco ebbe un momento d'oro. Uno dei poliziotti, pieno di buona volontà, prese su una valigia. Alexandra gli disse di togliere le sue sporche mani da...

Il poliziotto la schiaffeggiò, con calma, e le spiegò per quale motivo loro non accettavano un linguaggio simile da un branco di straccioni di Torcibudella, né da quelle puttane delle loro figlie.

L'auto della polizia fece trasalire Norvell. Era blindata.

«Avete... avete molti fastidi, a Torcibudella?» domandò.

Il più amichevole dei due poliziotti disse:

«No. Solo ogni tanto. Non hanno più assalito un'auto di pattuglia da almeno sei mesi, per lo meno, non l'hanno assalita con qualcosa di più di una pistola. Ti troverai benissimo.»

E partirono dall'Unità G.M.L. W-97-AR di Monmouth. Non ci furono sentimentalismi, al momento del distacco. Norvell era immerso nelle sue preoccupazioni, Alexandra era furibonda, ma taceva. E, dal momento del risveglio, Virginia non aveva detto più di due parole a nessuno.

L'autoblinda si fermò, nell'ampia strada che fungeva da raccordo anulare intorno al quartiere delle case a bolla, con il motore avviato, mentre l'autista parlava impazientemente nella radio. Finalmente arrivarono altre due auto della polizia, e i tre veicoli, in processione, lasciarono le strade della città per avviarsi sull'asfalto crepato che conduceva a Torcibudella. Un tempo, la strada che ora percorrevano era stata una super-autostrada a sei corsie, sulla quale migliaia e migliaia di automobili erano passate veloci, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ora si snodava attraverso una giungla caotica, mentre i caselli, agli imbocchi, erano diventati un ammasso di pietrisco e di ruggine.

Viaggiarono, tra continui scossoni, per circa quattro chilometri, e poi svoltarono in una strada laterale che era ridotta, se possibile, in condizioni ancora peggiori.

La prima cosa che colpì Norvell fu il cattivo odore.

La seconda cosa fu ancora peggiore. Si trattava dell'orribile sensazione di essere stato tradito, alla vista di Torcibudella. Un uomo può abituarsi a tutto. Se la sua vita è condannata a essere un martirio tremendo, per un'ulcera cronica o per qualche altra malattia ancora peggiore, un uomo può sopravvivere. Se la sua vita è condannata a essere uno squallido deserto di povertà e di umiliazioni, se l'uomo è deforme, mutilato, invalido... ebbene, in ciascuno di questi casi un essere umano riesce ad adattarsi, e a cercare di vivere nella maniera migliore, malgrado le proprie infelicità. Ma quando un uomo si è già preparato alla sciagura... si è già fatto forza, ha tentato di convincersi e di subire... e l'evento, quando esso si presenta, è centomila volte peggiore del più orribile dei suoi incubi... ebbene, le riserve di energia e di sopportazione vengono consumate, e nulla rimane, all'infuori del crollo totale, assoluto.

E Torcibudella, con le sue rovine formicolanti di umanità, era infinitamente peggio di quanto Norvell avesse mai potuto sognare.

Le macchine della polizia svoltarono in un vicolo, dietro l'angolo di un edificio, azionando le sirene, e poi sì fermarono al centro di un lungo, curvo isolato. Le auto di scorta si disposero una davanti e una dietro all'autoblinda; da ognuna di esse scese un poliziotto, che si fermò, immerso fino alle caviglie nelle erbacce e nei rifiuti, con la mano posata sul calcio della pistola.

Il guidatore di Norvell disse:

«Questa andrà bene. Andiamo.»

L'operazione di trasportare la loro roba nella casa, sotto la pioggia battente, e davanti alle facce inespressive degli abitanti di Torcibudella, si svolse, fortunatamente per Norvell, come in un sogno confuso. Un momento prima era ancora seduto sull'auto della polizia, intento a fissare, pervaso da una totale incredulità, il disgustoso, traballante porcile che gli avevano offerto come abitazione; un momento dopo, le auto della polizia se ne erano già andate, e lui si ritrovò seduto su una valigia rovesciata, e Alexandra stava gemendo, lamentosamente:

«Norvell, io devo trovare assolutamente qualcosa da mangiare, altrimenti morirò sicuramente di fame! È stato davvero...»

Virginia sospirò, e si alzò in piedi.

«Piantala,» disse seccamente a sua figlia. «Norvell, aiutami a portare di sopra il baule.»

Scostò con un calcio alcuni barattoli arrugginiti, e si diresse verso una scala, ignorando completamente sua figlia.

Norvell la seguì, sulla scala stretta, mentre i gradini, antichi e rappezzati con materiali eterogenei, cigolavano sinistramente sotto i loro piedi. Il piano superiore (Attico di Espansione per la Vostra Famiglia che Aumenta) era fradicio di pioggia, ma Virginia riuscì a trovare un angolo in cui la pioggia non entrava. Norvell depose in quel punto il baule.

Prima che lei ritornasse al piano terreno, avevano già compagnia...

I primi ad arrivare furono tre uomini, che indossavano degli impermeabili cenciosi.

«Polizia,» disse uno di loro, agitando qualcosa di metallico sotto il naso di Norvell. «Un semplice controllo di routine. Voialtri avete oggetti di valore, bevande alcoliche, narcotici, o armi da dichiarare?»

Norvell protestò:

«La polizia se ne è appena andata.»

«Quella era la polizia della città a bolla, amico,» disse l'uomo. «Qui non ha giurisdizione. Se vuoi un consiglio, non discutere con noi. Allora, avanti, cos'hai da dichiarare?»

Norvell scrollò le spalle.

«Niente, credo. A meno che non vogliate che io dichiari anche i nostri vestiti.»

Gli uomini si diressero, con aria decisa, verso le valige.

«Solo dei vestiti?» domandò uno di loro, senza voltarsi. «Niente armi e niente liquori?»

La voce chiara e acuta di Virginia giunse dall'alto delle scale.

«Avete proprio ragione. Le armi le abbiamo,» disse, nervosamente. «E voialtri fottuti farete bene a filare, prima di ricevere una lezione della quale vi ricordereste per un pezzo!»

Norvell, con gli occhi sbarrati, vide che Virginia impugnava una rivoltella antiquata.

«Un momento, sorella,» obiettò uno dei 'poliziotti'.

«Filate!» scandì lei. «Conterò fino a cinque. Uno, due, tre...»

Se ne andarono, imprecando.

Virginia scese le scale, e porse la pistola a Norvell.

«Tienila tu,» disse, freddamente. «Dà un'impressione migliore il fatto che sia tu a usarla. Nel caso avessi dei dubbi, non esistono poliziotti, qui a Torcibudella.»

Norvell deglutì. Prese l'arma, con prudenza. Era sorpendentemente pesante, molto più di quanto avesse immaginato, nella sua inesperienza, non considerando la massa necessaria per contenere della polvere da sparo in esplosione.

«Dove ti sei procurata questo ordigno?» domandò.

Virginia disse, seccamente:

«L'ho sempre avuta. Era di Tony, prima che morisse. E per te, questa è la lezione numero uno: non si può vivere, qui, senza una pistola.»

Alexandra si fece avanti, con occhi scintillanti.

«Sei stata meravigliosaalitò. «Quegli orribili bruti... Dio solo sa cosa mi sarebbe accaduto, se qui ci fosse stato solo Norvell

Si protese, per baciare la guancia della madre, ma Virginia le diede una spinta, allontanandola, e la studiò, con espressione gelida:

«Qui non c'è posto per queste scemenze, signorina. D'ora in poi, siamo tutti sullo stesso piano... anche Norvell, chiaro? Mi ascolti? Non possiamo permetterci di mentirci, di imbrogliarci, di fare il doppio gioco, e di litigare. La prima volta che sgarri ti vendo, com'è vero il cielo.»

Il volto di Alexandra si era trasformato in una maschera di terrore.

Sua madre disse, in tono freddo:

«O bere o affogare... adesso sei a Torcibudella. Tu non lo ricordi; ma imparerai. Adesso, fuori di qui. Se non riesci ad arraffare qualcosa da mangiare, puoi crepare di fame. Ma non tornare qui fino al tramonto.»

La ragazza rimase immobile, come paralizzata. Virginia l'afferrò per la spalla; la spinse fuori della porta; poi chiuse la porta dietro di lei.

Norvell guardò, attraverso una fessura delle assi sconnesse che chiudevano la finestra panoramica, e vide Alexandra che se ne andava disperata sotto la pioggia battente, nella fanghiglia, piangendo.

Si rivolse a Virginia... alla nuova Virginia... e le domandò, con voce incerta;

«Cos'era quella storia di venderla?»

Lei disse:

«Quello che ho detto. Venderla. È facile. Puoi sempre trovare un fumoso o una maitresse,per una bambina. Non so quali siano i prezzi, oggi; quando io avevo tredici anni, mi hanno venduta per cinquanta dollari.»

Norvell, sentendosi rizzare i capelli, esclamò:

«Tu?»

«Io. Non Guglielmina Vattelapesca o Zenobia la Battona. Io. Tua moglie. Penso di essere stata fortunata... mi hanno venduta a un fumoso, non a una casa. Aveva una 'casa da tè'; io lo aiutavo a ripulire la clientela. È là che ho conosciuto Tony. E adesso, se non hai altre domande inutili, aiutami a disfare i bagagli.»

Norvell la aiutò, sentendo una terribile confusione in testa, e con le mani che tremavano. Senza una parola di vergogna, senza tentare di scusarsi, lei aveva demolito la storia della sua vita... la storia che lui aveva così faticosamente e lentamente ricostruito dagli 'indizi' e dalle 'rivelazioni' casuali che lei si era lasciata 'sfuggire', nel corso degli anni. Lei non aveva 'mai voluto parlarne'... ma in qualche modo, Norvell era stato sicuro di sapere. I genitori onesti e laboriosi. La vita frugale e misera di duro lavoro. Il calore dei sentimenti familiari, rinfocolati dalla comune necessità. Gli anni duri e difficili, passati come... come qualcosa che lei non aveva mai spiegato, esattamente, ma che doveva essere stato un lavoro onesto e umile, quindi ancora più meritevole. L'incontro con Tony Elliston... un affascinante professionista dei Giochi, che non era un cattivo ragazzo, in fondo, ma... ma il loro non era stato amore. No, Norvell... niente di simile a quello che noi possediamo...

Norvell aveva pensato di essere stato molto abile. Aveva riunito tutti quei frammenti, e costruito l'intera storia, sorridendo compiaciuto, in segreto, cullandosi nella consapevolezza di sapere, su di lei, molto più di quanto lei non sospettasse.

E invece, lei aveva fatto la borseggiatrice, in uno spaccio di droga, dove l'avevano venduta i suoi genitori.

 

Qualcuno bussò alla porta.

Virginia disse, a denti stretti:

«Se è quella maledetta mocciosa che torna, prima di quando le ho detto io...» E spalancò la porta. Urlò.

Norvell, con sua grande sorpresa, scoprì di stringere in pugno la pistola. La stava puntando contro l'enorme figura curva e sgraziata, dai denti sporgenti, che stava sulla soglia.

L'apparizione si affrettò ad alzare le enormi mani sopra la testa piccola, dai capelli cespugliosi, e gli disse, sogghignando:

«Non sparare, amico. Sono inoffensivo. So di non essere bello, ma sono innocuo. Sono venuto qui ad aiutarvi. Per mostrarvi dove andare a registrarvi, e tutto il resto. Mi chiamo Shep. Vi aiuterò bene, vi mostrerò i posti migliori per trovare la legna da ardere, vi avvertirò sulle bande. Ho saputo che avete una ragazzina. Se vorrete venderla, vi farò avere un buon prezzo. Tu vuoi metterti in affari, amico? Posso condurti da un tizio che potrà avviarti bene. Se vuoi fare denaro a palate, conosco un rivenditore di zucchero, e un tizio che ha una storta da noleggiare. Io sono soltanto Shep, amico. Cerco solo di andare d'accordo con tutti.»

Virginia disse:

«Non abbassare la pistola, Norvell. Shep, vieni qui e siediti. Che cosa vuoi?»

«Razioni che vi crescono,» disse il gigante, con un sorriso fanciullesco. «Denaro, se ne avete. Sono sempre alla disperazione, ma adesso più che mai.» Indicò con il braccio la porta aperta. «Vedi la pioggia? Devo metterla giù. È l'arcobaleno visto di fronte, amico. Vedi? Devo metterla giù, sulla tela; non ho mai visto prima l'arcobaleno di fronte. E per metterlo giù, sulla tela, devo avere della lacca cremisi. Tu non vedi nulla di cremisi, vero? Be', non vedrai niente di cremisi neppure sulla tela, ma deve esserci... nel fondo, e solo così riuscirò a cogliere la coppa di lacrime, il maledetto, dannato pianto della pioggia che scende cupa su duecentomila desolazioni.»

Norvell, abbassando la pistola, disse, stupidamente:

«Allora dipingi.»

«Sì, dipingo. E per cinquanta dollari posso ottenere quello di cui ho bisogno, e questo mi lascia l'unico problema di procurarmi cinquanta dollari.»

Virginia disse:

«Con il tuo fisico, non dovrebbe esserti difficile.»

Shep scrollò le spalle, con aria di scusa:

«Non come intendi tu, non con le maniere forti. Non mi è più possibile, da quando ho cominciato a dipingere,» disse. «Non si può essere una vergine a metà. Così, faccio delle commissioni.»

Abbassò le mani, e li guardò, con i suoi occhi infossati, da uomo di Neanderthal.

«Avete qualcosa da farmi fare? Devo guadagnare cinquanta dollari, prima che la pioggia finisca.»

Virginia, apparentemente, aveva raggiunto una conclusione.

«Norvell, da' cinquanta dollari a Shep.»

Lui lanciò uno sguardo inorridito alla moglie; in questo modo, sarebbero rimasti con diciotto dollari e sessantacinque centesimi. Lei disse, in tono sprezzante, «Non preoccuparti. Non mancherà all'impegno. A Torcibudella, nessuno può nascondersi per molto tempo.» Si rivolse a Shep. «Lavorerai, per guadagnare quel denaro. Una settimana di duro lavoro. Il serbatoio deve essere pieno fino all'orlo. Il camino sarà probabilmente bloccato. Avremo bisogno di legna da ardere. Questo posto ha bisogno di mille riparazioni. Inoltre, mio marito non conosce il posto, e potrebbe cacciarsi nei guai senza accorgersene. Dovresti proteggerlo.»

«Per cinquanta dollari? Ma certo!» esclamò Shep, raggiante. «Vuoi che sorvegli anche la ragazza?»

«No,» rispose lei, seccamente.

Il gigante annuì, oscurandosi il volto.

«Sei tu che decidi, signora, e devi sapere quello che fai. Però per la ragazzina sarà dura. Posso avere i cinquanta dollari, adesso? Ci vorranno due o tre giorni per avere la roba. Dieci dollari andranno soltanto al ragazzino che dovrà farmi la commissione. E io non posso perdere questa pioggia.»

Norvell contò cinquanta dollari, e glieli porse.

«D'accordo!» esclamò gioiosamente Shep. «Sistemiamo prima la faccenda della mia lacca cremisi, e poi sbrigheremo subito la registrazione.»

Camminarono, attraverso la pioggia battente, verso un edificio diroccato, presidiato da un ragazzino dalla faccia da topo, che non doveva avere più di dodici anni. Shep gli disse, con aria enigmatica:

«Ho un messaggio per Monmouth.»

Il ragazzo alzò il capo, e cantilenò, in tono lugubre:

«Coniglì, Coniglié, Coniglietti qui da me!»

Norvell batté le palpebre. Bambini! Dappertutto. Sbucati dal nulla. Facce da topi, occhi socchiusi, calcolatori, che sbucavano silenziosamente dalle cortine di pioggia, improvvisamente, come se si fossero materializzati nell'aria umida.

Shep disse loro:

«Come l'ultima volta, ma con della lacca cremisi. Capito?»

Una ragazzina sparuta di circa tredici anni disse, senza entusiasmo:

«Un accidente come l'altra volta. I Dannatissimi si sono alleati con i Granatieri Goering. Per attraversare la parte occidentale, dovremo aprirci la strada a bottigliate.»

Shep disse:

«Ho fretta, Lana. Puoi farlo o no?»

Lei gli disse, in tono blando:

«E chi ha detto che non si può fare, tu o io? Ho detto che dovremo aprirci la strada a bottigliate.»

Il dodicenne dalla faccia di topo disse, improvvisamente:

«Io non ci sto. Sanno benissimo che sono stato io a far fuori il fratellino di Puzzapiedi. Inoltre...»

«Chiudi il becco e lascia perdere Puzzapiedi e suo fratello,» gridò Lana, rabbiosa. «Tu resta qui. Ne riparleremo quando sarò di ritorno.» Il ragazzo indietreggiò, spaventato. Lana chiamò i ragazzi, «Fratelli Coniglietti, ispezione! Presentat-arm

Una piccola selva di bottiglie rotte, dai bordi irregolari e taglienti, apparve sotto la pioggia. Norvell deglutì, pensando a quello che esse implicavano.

«Bravi ragazzi,» esclamò Shep, e diede a Lana i cinquanta dollari.

«Coniglì, Coniglié, Coniglietti qui da me!» cantilenò Lana, in tono lugubre, e i ragazzi scomparvero, inghiottiti dalle solide cortine di pioggia.

 

Norvell trattenne le sue domande, seguendo faticosamente Shep sotto il diluvio. Questo, almeno lo aveva imparato.

Il Commissario Residente viveva in una casa normale... Norvell lo scoprì, con immensa sorpresa. Si era aspettato che l'uomo responsabile delle assegnazioni per tante migliaia di persone abitasse in una casa G.M.L.: certamente il suo rango gliene dava il diritto. Esistevano soltanto venti commissari, disseminati tra le diverse sezioni di Torcibudella.

Poi Norvell vide il Commissario Residente. Era un vecchio rottame, stanco e fallito. Disse a Norvell, debolmente:

«Porti sempre con sé i documenti. Si assicuri che anche sua moglie e la sua bambina lo facciano. Ci sono infiniti ostacoli, per ottenere dei duplicati dei documenti, e, in caso di smarrimento dei suoi, potrebbe patire la fame per settimane, prima dell'arrivo di quelli nuovi. Come capo famiglia lei ha diritto a una razione tripla, e un'altra spetta a sua moglie. La ragazzina mangia molto?»

Norvell pensava di sì. Annuì, debolmente.

«Bene, allora le daremo una razione da adulto. Sa Dio che non c'è carenza di cibo. Vediamo... fissiamo l'orario in cui dovrà presentarsi. Diciamo tutti i mercoledì, tra le tre e le cinque. È importante che si rispetti l'orario, altrimenti in certi momenti qui avremmo un affollamento spaventoso, e in altri non avremmo nessuno. È tutto chiaro? Scoprirà che è molto meglio fare la strada in gruppo, quando viene qui per l'assegnazione. Shep potrà spiegarle tutto. Serve... serve a evitare dei guai. E qui non vogliamo fastidi.» Cercò di assumere un tono severo. E poi aggiunse, in tono patetico, «La prego,veda di non provocare dei fastidi nel mio distretto. Ce ne sono altri diciannove, no?»

Consultò un elenco, mormorando tra sé.

«Oh. Le sue tessere danno diritto a lei e alla sua famiglia a posti a sedere, nei popolari, a tutti gli spettacoli e alle Giornate dei Giochi, allo Stadio.» Il cuore di Norvell si strinse, a quelle parole. Il resto fu come un sogno. «Trasporti gratuiti, naturalmente... spero che ne approfitterà... non ha senso rimanere a casa a rimuginare le cose... un po' di sangue pulisce l'aria... la porta è sempre aperta...»

Fuori, sotto la pioggia, Norvell chiese a Shep:

«È questo tutto quel che fa?»

Shep lo guardò.

«C'è qualcos'altro da fare?» Si girò. «Andiamo a cercare un po' di legna da ardere.»

 

CAPITOLO XII

 

Come sparizione, era un vero capolavoro.

Mundin tentò di tutto. Nessuna traccia di Norma Lavin. Scomparsa. Dopo la telefonata di Ryan, le tracce si erano perdute.

Per prima cosa, naturalmente, Mundin si era rivolto alla polizia; e quando aveva detto che Norma Lavin era una di Torcibudella, i poliziotti avevano tentato, per pura cortesia, di non ridergli in faccia.

«Senta, signore,» gli spiegò un cortese sergente dell'Ufficio Persone Scomparse. «Le persone sono una cosa... gli abitanti di Torcibudella un'altra. Costoro si trovano forse nei ruoli delle imposte? Hanno le normali schede perforate? Hanno forse tatuaggi d'identificazione dei contratti d'impiego? No. Non hanno niente. Così, che cosa possiamo fare? Possiamo trovare delle persone scomparse, certo, ma questa ragazza non è una persona. È una di Torcibudella.» Il sergente scrollò le spalle, filosoficamente. «Forse le è venuta, semplicemente, l'idea di andarsene. Forse in questo momento è già morta, in una casa abbandonata. Noi non possiamo saperlo, semplicemente, capisce?»

Ma, cortesemente, egli annotò il nome di Charles Mundin, per ogni evenienza.

E, per ogni evenienza, Mundin comprò una pistola, e cominciò le sue indagini personali a Torcibudella. Moltissime persone avevano visto Norma, e la sua antica Cadillac, nel giorno della sua scomparsa. Ma nessuno l'aveva vista dopo.

E non c'era altro.

 

Ci volle una settimana, durante la quale Mundin si trovò a fare regolari viaggi alla casa dei Lavin e di Ryan, carico di provviste. Scoprì anche che Ryan gli portava via anche gli spiccioli, per soddisfare la sua necessità di droga.

Don Lavin stava scivolando in uno stato di catatonia, per l'assenza di sua sorella. Ryan, a volte freddamente sicuro e fiducioso, quando si era riempito di droga, e altre volte scosso dai brividi e da crisi di pianto, supplicò Mundin di tentare qualcosa, qualsiasi cosa. Mundin tentò di chiamare un dottore.

Il dottore fece una visita... durante la quale Don Lavin, rianimato da chissà quale scintilla di orgoglio, si comportò meravigliosamente e conversò amabilmente con il dottore. Il dottore se ne andò, lanciando uno sguardo indignato a Mundin, e Don ripiombò nel suo cupo torpore.

«Bene, Ryan,» disse amaramente Mundin. «E adesso che si fa?»

Ryan scosse fuori della scatola l'ultima pillola, la inghiottì, e disse a Mundin che cosa si doveva fare, ora.

E Mundin andò a far visita al suo vecchio amico William Choate IV.

L'ufficio del povero Willie era di poco più piccolo di un aeroporto. Willie lo attraversò, con uno scatto da centometrista, per andare ad abbracciare il caro, vecchio Charles.

«Accidenti,» gorgogliò. «Come sono felice che tu abbia potuto venire a trovarmi! Mi hanno messo qui da poco, dopo la morte del vecchio Sterling. Questo era il suo ufficio, capisci? Così, quando è morto, mi hanno...»

«Vedo,» disse Mundin, gentilmente. «Ti hanno messo qui.»

«Sì! Senti, Charles, che ne dici di pranzare assieme?»

«Forse. Willie, ho bisogno di un piccolo aiuto.»

Willie disse, in tono di rimprovero:

«Senti, Charles, non si tratterà per caso di un lavoro? Accidenti, mi metteresti in una bruttissima situazione!»

Be', pensò Mundin, erano riusciti, almeno, a imprimergli una cosa in testa, anche se avevano dovuto fermarsi a quel punto.

«No,» disse. «Voglio soltanto una piccola informazione. Vorrei sapere quando e dove si svolgerà l'assemblea annuale degli azionisti delle Case G.M.L.»

Willie disse, con aria beata:

«Io non lo so. Ma non devono pubblicare la convocazione da qualche parte? Su di un giornale?»

«Sì, devono pubblicare l'annuncio di convocazione su di un giornale, Willie. Il problema è quello di scoprire di quale giornale si tratta. Ne esistono circa cinquantamila in questo paese, e la legge dice che è sufficiente che venga pubblicato su uno solo... non necessariamente in lingua inglese.»

Willie disse, in tono contrito:

«Io conosco solo l'inglese, Charles.»

«Sì, Willie. Perché non lo chiedi all'Ufficio Spoglio Periodici?»

Willie annuì, vigorosamente:

«Oh, certo, Charles. Sai che per te farei qualunque cosa. Qualunque cosa!» Con aria incerta, Willie domandò, nell'intercom, se per caso avevano qualcosa di simile a un Ufficio Spoglio Periodici, e l'intercom rispose sissignore, e lo mise in contatto con i responsabili della sezione. Mezz'ora più tardi, mentre era immerso profondamente nelle complicazioni tortuose delle riunioni preliminari del Comitato Protettivo degli Obbligazionisti del Gruppo E, Mundin sentì che l'intercom tossiva, e annunciava che l'avviso di assemblea degli azionisti delle Case G.M.L. era apparso sul Picayune-Intelligence di Lompoc, California. L'assemblea avrebbe avuto luogo due giorni più tardi, nella Stanza 2003 del Palazzo dell'Amministrazione di Morristown, a Long Island.

«Accidenti!» disse Willie, dubbioso. «Non riusciranno a richiamare molta gente in questo modo, vero?»

 

Il mattino dopo Mundin era in attesa, a uno sportello da due dollari della Borsa di New York, quando suonò il campanello di apertura.

Esaminò le spiegazzate istruzioni di Ryan, nervosamente, teso e sudato come l'appassionata folla di frequentatori abituali che lo circondavano da ogni parte, ma per motivi completamente diversi.

Le istruzioni di Ryan erano complete e precise, se non per un particolare: non gli dicevano in quale modo avrebbe dovuto procurarsi i duemila dollari necessari per metterle in pratica. Mundin bestemmiò, tra i denti, si strinse nelle spalle, e premette con decisione il numero 145, Rame Anaconda. Inserì il suo contrassegno, abbassò la leva, e tirò fuori il suo biglietto. A 19.999 altri sportelli, 19.999 altri investitori stavano facendo lo stesso. E fuori, nella strada policroma, diecimila ritardatari erano in attesa del loro turno, e mormoravano incessantemente.

Il mercato si mosse.

Il Grande Quadro angolare, al centro della sala, lampeggiò e ammiccò... dapprima rapidamente, poi lentamente. Si chiuse. Le luci si spensero. I calcolatori elettronici dei totalizzatori cominciarono a ronzare.

Mundin sollevò il suo binocolo all'altezza della riga 145, ma era difficile inquadrarla. Le sue mani tremavano.

Il gong suonò, e la riga che lui stava osservando si illuminò: 145, rialzo 3.

La grande sala fu scossa dal tuono dei commenti, del quale l'osceno bisillabo di Mundin fu soltanto la ventimillesima parte. Un pidocchioso profitto di sei centesimi, gemette. Non valeva neppure la pena di presentarsi allo sportello del cassiere.

Un agente di cambio che passava di là, con un vecchio distintivo di Socio al bavero della giacca, gli disse, in tono confidenziale:

«Ehi, amico... tieni d'occhio i metalli.»

«Fila, se non vuoi che ti faccia filare io,» esclamò Mundin. Non aveva tempo da perdere con i falsi profeti. Puntò il binocolo sul Grande Quadro, cercando di ricavare qualche indizio sensato dai primi movimenti della giornata.

I titoli industriali erano calati di quattro punti, in media, gli disse il prezioso riassunto che appariva in un angolo. Le Ferrovie... e cioè, lo sviluppo delle zone industriali... erano salite di tre punti. I Chimici, di otto.

Mundin cercò di fare delle previsioni. Questo significava che gli investitori avrebbero lasciato stare i Chimici, perché avrebbero pensato che tutti ci si sarebbero gettati sopra, a causa del rialzo... tranne quegli investitori che avrebbero puntato sui Chimici, immaginando che tutti avrebbero lasciato stare i Chimici pensando che tutti vi si sarebbero buttati sopra. A causa del rialzo.

Il campanello di avviso dei trenta secondi!

«Amico,» disse l'agente di cambio, con aria insistente. «Tieni d'occhio i metalli!»

«Va' all'inferno,» disse Charles, raucamente, con le dita che tremavano sui pulsanti. Premette di nuovo Anaconda, acquistò cinque biglietti, imprecò contro la sua credulità, e aspettò.

Quando sentì il brontolio sordo della moltitudine, riaprì finalmente gli occhi, e osservò il quadro con il binocolo.

 

145, rialzo 15

 

«Ricorda chi te l'ha detto,» stava dicendo l'agente di cambio.

Mundin gli diede un dollaro. Dopotutto, un altro paio di mani gli sarebbero state utili...

«Grazie, amico,» disse l'agente di cambio. «Stai facendo una cosa intelligente. Senti, non cambiare. Non ancora. Te lo dirò io, quando dovrai cambiare. Questo è un pubblico mattutino... e del martedì, per di più. Non è di quella gente isterica del lunedì mattina, che guadagna in fretta, e viene ripulita ancora più in fretta. Guardati attorno, e lo vedrai da solo. Piccoli investitori che si sono presi un giorno di libertà. I buoni padri di famiglia che vogliono fare i furbi... almeno così pensano. Poco e bene. Sono vent'anni che li studio. Non cambiare ancora.»

Charles non cambiò.

Cominciò a passare un rivoletto di dollari all'agente, che, quel giorno, o era molto fortunato, o era un genio. Verso mezzogiorno Charles possedeva un portafoglio eterogeneo di Metalli, per un valore di quattrocentottanta dollari.

«Ora,» disse l'agente, raucamente. Si era fatto prestare il binolo di Charles, per studiare la folla. «Vedi? Alcuni se ne stanno andando. Altri cominciano a tirar fuori i loro panini. La tensione si allenta. Adesso non sono più così furbi, e non puntano più così poco. Li sto studiando da vent'anni. Ora cominciano a fare gli errori più stupidi e più evidenti, perché cominciano ad avere fame, e un uomo che ha fame non è furbo. Lo sento, amico, come non l'ho mai sentito in vita mia. Vendi a venti punti sotto. Accidenti, vorrei avere il coraggio di dire trenta!»

Due minuti più tardi, stava dando delle manate sulla schiena di Charles, e gridava:

«Ce l'abbiamo fatta, amico! Ce l'abbiamo fatta! Ce l'abbiamo fatta!»

I Metalli erano crollati... di trentotto punti. Charles, che era ritornato calmissimo, gelidamente calmo, gli diede cinque dollari. Il primo passo nelle istruzioni di Ryan... mettere assieme un po' di denaro. E questo l'aveva fatto.

Si volse al bottone delle puntate da 500 dollari.

«Dammi un vincente,» disse all'agente di cambio.

L'agente annaspò, e balbettò qualcosa.

«Devo farlo,» disse Charles. «Così ci vuole troppo tempo. E io ho fretta.

L'agente di cambio balbettò:

«I Carburanti Solidi dovrebbero salire, adesso... ma... ma... per piacere, amico, fai 250. Metà e metà. Uno sui Carburanti Solidi, e uno su... su...» Osservò il quadro, con il binocolo. «I Cibi in Scatola sono rimasti a dormire per tutta la mattinata,» borbottò. «Generalmente, la gente del martedì si tiene alla larga dai Cibi in Scatola, ma dopo il crollo dei metalli...»

Disse, lentamente:

«Compra Carburanti Solidi e Cibi in Scatola.»

Alle due del pomeriggio, Mundin aveva totalizzato un valore di 2.300 dollari, e le tasche dell'agente di cambio erano gonfie di banconote di piccolo taglio. L'agente parlava tra sé, sottovoce.

Charles disse:

«Va bene. E adesso, io voglio un'azione della G.M.L.»

L'agente batté le palpebre, e lo fissò:

«La vecchia 333? No, questo non puoi farlo.»

«Sì che posso. La voglio.»

L'agente scosse il capo. Disse, in tono ragionevole:

«Tu non capisci, amico. Sei nuovo, qui; e io son qui da vent'anni. Loro hanno un investitore, vedi? Per tutto il giorno, non fa altro che premere il 333. Lo conosco bene. È laggiù, vedi? Terza fila, seconda colonna. È come l'Acciaio e la P&A... non vogliono correre il rischio che qualcuno compri le loro azioni.»

«Ne voglio una.» disse Mundin.

L'agente, inorridito, disse:

«Amico, ma non hai fatto abbastanza, per oggi? Andiamo, andiamo a bere qualcosa; offro io. Se ti metti a giocare con i grossi, quelli ti puniscono. Come la G.M.L. Se cerchi di arraffare un'azione, ti fai male. Vedi, hanno delle risorse illimitate... il-li-mi-ta-te. Non hanno problemi. Per qualsiasi movimento, per tutto il giorno, lui ha sempre un'offerta. Lui offre diecimila dollari,più del valore nominale. Se impazzisci e offri più di diecimila, ottieni l'azione, certo. Così, al prossimo movimento, lui che fa? Magari vende. Magari aspetta. Ma prima o poi agisce, e tu rimani schiacciato. Sai quello che dicono, amico... 'chi vende quel che non ha, o ricompra, o finisce in prigione'. E molti vi sono andati.»

Mundin disse, freddamente:

«Qual è la quotazione delle G.M.L.?»

«Duemila. Ma non riuscirai ad averle, te l'ho appena detto! Lui ha un'offerta, per qualsiasi movimento. Capisci?»

Charles si mise al lavoro, per convincere l'agente a mettere in esecuzione il piano di Ryan. Passarono due movimenti di borsa, mentre Charles supplicava, e minacciava, e lusingava, e corrompeva.

Alla fine l'agente, tremando, si avviò barcollando verso la terza fila, seconda colonna. Mundin lo seguì, con il binocolo.

Stava funzionando. Mundin, sudando, vide la scena in miniatura, attraverso le lenti, vide il saluto, la spinta silenziosa, la muta protesta, la discussione sempre più riscaldata. L'investitore della G.M.L. era un ometto piccolo, grassoccio e anziano. Anche l'agente era piccolo, ma era snello e robusto.

La rissa esplose mentre suonava il campanello dei trenta secondi. Charles distolse lo sguardo dai due uomini impegnati nella collutazione, e dallo sportello dell'investitore, eccezionalmente abbandonato, e, con mani sicure, prese i suoi quattro biglietti da duecentocinquanta dollari, e premette il bottone della Vecchia 333.

Una richiesta non seguita da un'offerta non costituiva una transazione, secondo le definizioni elettroniche del totalizzatore della Borsa di New York. Come per tutto il resto della giornata, sul Grande Quadro rimaneva la solita scritta;

 

333, nessun cambiamento.

 

Una richiesta, e nessuna offerta. In un movimento d'acquisto, significava un rapido profitto... la differenza tra la richiesta e il valore nominale. Un investitore che si trovava accanto a Charles, lo guardò con rispetto, e disse:

«Cosa mi consiglierebbe lei sui Chimici, amico?»

Mundin lo ignorò. Lasciò il suo posto, provando un certo senso di rammarico, e prese la scala mobile che portava allo sportello del cassiere, sul quale era scritto, «INDUSTRIALI - da $ 1.000 in su.»

«Duemila dollari,» disse il cassiere, con aria annoiata, ispezionando i biglietti, e dando un'occhiata alla sua riproduzione in miniatura del Grande Quadro, notando il 'nessun cambiamento'. Cominciò a contare delle banconote da cento dollari.

«Voglio il titolo,» disse Mundin, rigidamente.

«D'accordo, signore... uh!» Improvvisamente, l'impiegato si rese conto di quello che Mundin stava dicendo. «Accidenti... la vecchia 333! Come ha fatto?»

«Voglio il titolo,» disse Charles, ostinatamente. «Al valore di duemila dollari. Sbrighiamoci.»

Il cassiere scrollò le spalle, e trasmise un ordine sulla sua tastiera. Pochi secondi dopo, un'azione delle Case G.M.L. con diritto di voto scivolò fuori da una fessura nella cassa. Il cassiere la riempì, con nome e l'indirizzo di Charles, e la registrò.

«Trasmetterà immediatamente la registrazione alla direzione della società?» domandò l'avvocato.

«È automatico,» disse il cassiere. «Ormai è già nei loro archivi. Senta, signore, se non le dispiace, vuole dirmi come è riuscito a...»

Era troppo affabile... e Charles vide che aveva all'orecchio il piccolo microfono di una ricevente personale. Molto probabilmente, stava cercando di fargli perdere tempo.

Si lanciò tra la folla, e scomparve alla vista del cassiere nel giro di pochi secondi.

 

Il gioco aveva funzionato, pensò Mundin, dirigendosi verso la strada, e verso Torcibudella. Aveva lanciato il dado, e aveva ottenuto la posta in palio; aveva lanciato di nuovo il dado, e aveva ottenuto la sua unica azione del pacchetto azionario delle Case G.M.L., un'azione che gli dava diritto a un seggio all'assemblea annuale degli azionisti.

E ora, sarebbe iniziato il vero gioco d'azzardo.

Mundin fischiò, per chiamare un tassì. C'era una certa confusione, alle sue spalle, ma il tassì arrivò prima che Mundin avesse tempo di dare più di un rapido sguardo... senza avere il tempo di notare che l'uomo che veniva pestato a sangue, in pieno giorno, da tre gorilla taciturni e muscolosi, era un ometto magro, che portava al bavero della giacca un distintivo da Socio.

Se ti metti a giocare con i grossi, quelli ti puniscono.

 

CAPITOLO XIII

 

«È quasi mezzogiorno,» disse Shep. «Cerchiamo un ristorante.»

«Un ristorante?» domandò Norvie Bligh, trasalendo. Seguì Shep lungo la strada sporca e malridotta, chiedendosi che cosa avesse voluto dire, con quelle parole. In una settimana, pensava di avere imparato già diverse cose su Torcibudella, grazie alla tutela di Shep. Ma non aveva mai visto delle insegne al neon, delle vetrine, niente che potesse assomigliare a un ristorante.

E infatti, Shep lo condusse a una delle tante case malridotte di Torcibudella. Una vecchia megera asmatica si aggirava per il soggiorno. C'era un caminetto, con il fuoco acceso, e in una pentola annerita bolliva dell'acqua. Un ristorante?

Shep prese di tasca un paio di razioni. Apparentemente, non andava mai in giro con meno di una dozzina di razioni. Era abbastanza facile ottenerle dal Commissario Residente; si poteva dichiarare di avere una dozzina di persone a carico, e lui, apaticamente, senza battere ciglio, era capace di concedere 273 razioni alla settimana. Se uno riusciva a portarle via, erano sue. C'era cibo in abbondanza.

E abbondanza di Giochi.

Shep aprì con l'unghia la scatola di plastica due-per-tre-per-sei, e Norvell lo imitò goffamente. Ne caddero fuori delle cose. Shep gettò una delle 'cose' alla vecchia... un blocchetto di roba per nulla appetitosa, che pareva un pezzo di legno avvolto nella plastica.

La vecchia l'afferrò, e lo inghiottì con avidità disperata, quasi soffocando.

«Vanno male gli affari?» domandò Shep, con aria noncurante. Nella sua voce, c'era una sfumatura di disprezzo.

Lei gli diede un'occhiataccia, senza parlare. Prese dell'acqua bollente dalla pentola, con una vecchia scatola di latta, e la versò nella scatola di plastica che aveva contenuto le razioni. Shep aprì una bustina, e versò della polvere nera nell'acqua.

Caffè! Il magico aroma rese improvvisamente avido Norvell. Porse alla vecchia una razione simile a quella che le aveva dato Shep, ottenne l'acqua, si preparò il caffè, ed esaminò avidamente le altre cose che erano uscite dalla scatola.

Biscotti. Una scatola di pasta di carne. Un blocco gommoso di verdure compresse. Dolci. Sigarette. Non aveva mai incontrato prima di allora quella combinazione; la pasta di carne era pepata e salatissima, ma buona.

Shep lo osservò, mentre Norvell divorava avidamente ogni cosa. Alla fine, il gigante sospirò:

«Quando avrai mangiato per diecimila volte lo stesso menù... be', comunque non voglio scoraggiarti.»

Quando furono fuori, Norvell domandò, un po' impacciato, cosa diavolo pensava di fare quella vecchia, per vivere.

«È semplice,» spiegò Shep. «Riceve le sue razioni, e le scambia con legna da ardere. Usa la legna per riscaldare l'acqua... per il caffè, per il brodo, per il tè, per qualsiasi altra cosa. Poi dà l'acqua in cambio di altre razioni. Sperando sempre di riuscire a guadagnarci nel giro, prima o poi. Ma non ci è mai riuscita.»

«Ma perché

Shep rimase in silenzio per un lungo minuto, mentre i due camminavano sotto il sole pomeridiano, per la strada sporca e sconnessa. E poi disse, lentamente:

«Senza offesa, ti dirò che è facile capire che sei un nuovo arrivato, Bligh. Perché lo fa, chiedi? Perché questo la fa sentire come un essere umano.»

«Ma..»

«Ma un accidente! Le dà la sensazione di essere padrona del proprio destino, signora della propria anima. È difficile morire di fame a Torcibudella, ma nelle settimane brutte lei ci va molto vicino. Pensa di essere una Rockefeller in miniatura. Rischia il suo capitale, nella speranza di un guadagno. Ebbene, è così! Che importa se ci perde sempre? Fa qualcosa... non si limita a rimanere seduta, inerte, in attesa del giorno delle razioni. Hai sentito parlare dell'Inferno?»

Mundin annuì. Come, praticamente, tutti gli altri, lui era membro della Chiesa Riformata Razionalista del Principio Naturale, ma, di quando in quando, l'inferno veniva menzionato nei sermoni.

«Be', se l'uomo che ha detto che l'inferno era una perpetua vacanza aveva ragione, allora noi ci siamo. Torcibudella, amico, Torcibudella.»

Norvell annuì di nuovo. Era sensato; capiva che la faccenda diventava ragionevole, indiscutibilmente, necessaria, dopo avere assaggiato per diecimila volte ciascun menù. La vecchia era disposta a provare... tutto. Pur essendo una vecchia; pur essendo una vecchia inutile, priva di talento, priva di speranze. Coloro che erano capaci di fare qualcosa, qualsiasi cosa, avrebbero tentato di tutto. Perché era l'unica speranza.

E questa rivelazione gli fornì un indizio, anche per decifrare la natura dell'enigma di nome Shep. Disse, con l'aria di chi ha capito qualcosa di molto importante;

«Così lei ha il suo ristorante, e tu hai la tua arte, e...»

Il gigante si avventò su di lui, lo afferrò, prendendolo per le spalle, e scuotendolo rabbiosamente.

«Piccolo, sporco pidocchio,» ringhiò Shep, con voce tremante, scoprendo i denti neri e corrosi. «Stupido! Cosa ne sai? Ascoltami, pidocchio! Se oserai dire, o insinuare, o solo pensare che io dipingo solo per ammazzare il tempo, ti spezzo in due!» Lasciò cadere Norvell, con tanta forza che l'uomo avvertì una scossa violenta; e poi rimase davanti a lui, a braccia incrociate, con gli occhi che lampeggiavano di sdegno.

Stranamente, Norvell scoprì di non avere paura. In un limpido lampo d'intuizione, egli capì di avere detto quello che non poteva essere detto, di avere lanciato una terribile, imperdonabile offesa.

Cercò di dire, umilmente, e con estrema sincerità:

«Scusami, Shep.»

Le ginocchia gli tremavano, e il cuore gli batteva, ma era solo adrenalina. Con mente improvvisamente limpida, egli si rendeva conto del tormento che aveva condotto all'ira quel placido bestione: il dubbio, l'insinuante, incessante, tormentosa sfiducia in se stesso. Quando l'ozio era obbligatorio, com'era possibile distinguere il bruciante, geniale impulso creativo dal suo sterile gemello, chiamato dilettantismo, o hobby,o qualcosa del genere? Impossibile. Potevano farlo i posteri, e solo i posteri. E i posteri vivevano in un altro tempo, quando l'interessato non poteva essere là, ad avere la risposta. Così il dubbio rimaneva, mai risolto, per sempre, sempre soffocato, sempre pronto a riemergere.

E quando, improvvisamente, questo dubbio veniva alla luce, bruciava, come il più corrosivo degli acidi.

Norvell disse, con fermezza, guardando il gigante:

«Non lo dirò mai più. Non lo penserò neppure. Non perché tu mi abbia spaventato, ma perché so che non è vero.» Esitò. «Io... be', anch'io pensavo di essere un artista. So quello che provi.»

Shep brontolò:

«Bligh, stai appena cominciando a scoprire quello che si può provare... mi dispiace di aver perso le staffe.»

«Non pensarci più,» disse Bligh. Ripresero il loro cammino.

 

Shep disse, finalmente:

«Qui troveremo qualche altro rifornimento.»

Il posto era una delle inevitabili case con la veranda panoramica, e il comignolo diroccato, ma aveva un cortile interno. E il cancello aveva una serratura. Shep abbatté il cancello con un calcio, togliendolo dai cardini.

Norvell disse:

«Ehi!»

«Facciamo a modo mio. Ehi, Stearns!»

Stearns era un uomo sparuto e grigio. Si fece strada, verso di loro, attraverso rottami, vecchie casse di plastica, immondizie, e rifiuti di ogni genere.

«Ciao, Shep,» disse, con voce inespressiva. «Che cosa vuoi?»

Shep disse:

«Non ho il mio libretto d'appunti, ma credo di ricordare tutto. Ti sei incamerato dei materiali da riparazione che un paio di amici miei si erano procurati al mercato nero, in maniera perfettamente onesta. Voglio che tu me li restituisca. Con gli interessi.»

«Sempre al lavoro per proteggere qualcuno, Shep?» domandò l'uomo. La sua voce era minacciosa. «Se tu avessi un po' di buon senso, ti metteresti con me.»

«Io non lavoro per nessuno, Stearns. Faccio dei favori a qualche amico, e gli amici fanno dei favori a me. Tira fuori la tua squadra, Titano dell'Industria.»

Shep, rapido come un fulmine a risentirsi di qualsiasi traccia d'ironia, era così poco sensibile da usare la stessa arma contro gli altri. Con i medesimi risultati.

Il volto di Stearns si alterò, per la collera, e Norvell capì quello che sarebbe accaduto poi... se non si muoveva in fretta.

«Stearns!» gridò, e profittò del momento di sorpresa per estrarre la pistola che Virginia gli aveva ordinato di portare sempre con sé. La mano di Stearns si fermò, all'altezza del bavero, e poi lentamente, controvoglia, ricadde lungo il fianco.

Shep lanciò a Norvell una rapida occhiata di approvazione.

«Tira fuori la tua squadra, Stearns,» ordinò.

Stearns non distolse lo sguardo dalla pistola che Norvell stringeva in pugno.

«Chris! Willie!» chiamò. «Prendete il carro!»

Il carro era una carcassa a due ruote che uno sparuto ragazzino spingeva per le sbarre, e un altro tirava con una cinghia di tela che gli circondava il petto. Facendo camminare Stearns davanti a sé, Shep gli ordinò di caricarvi ora questo, ora quel pezzo di materiale da costruzione. Completò il carico con un piccone arruginito e una zappa tolti da un ripostiglio degli arnesi, e poi disse a Chris e a Willie:

«Partenza, ragazzi. Non è lontano.»

Norvell non ripose la sua arma, fino a quando non ci furono tre isolati di distanza tra loro e l'ultimo, malevolo sguardo di Stearns.

Fecero due fermate, prima di dirigersi a casa di Norvell. A ognuna di esse una parte della roba veniva scaricata, tra i lacrimosi ringraziamenti dei cittadini dall'aria cupa, che avevano ritenuto i loro oggetti perduti per sempre, e con essi i mesi di risparmi, di lotte e di rischi che avevano permesso loro di mettere insieme quella piccola fortuna.

Norvell, osservando i ragazzini sudati e ansimanti, propose, con un certo disagio:

«Aiutiamoli un po' a tirare il carro.»

Ma Shep scosse il capo.

«Potremmo finire male. Il nostro compito è quello di proteggerli.»

Non ci furono inconvenienti, però. I ragazzini portarono il carro fino alla porta della casa di Norvell, e scaricarono la legna da ardere e i materiali da costruzione, accumulandoli ordinatamente sulla sporcizia che copriva il pavimento del vecchio e malandato soggiorno.

Virginia osservò, con aria di approvazione, quella roba, soppesando e calcolando.

«Niente carta catramata, linoleum, o qualcosa di simile?»

Shep ridacchiò.

«E nemmeno diamanti,» le disse. «Credi che il tuo tetto sia l'unico malridotto dei dintorni? Sei fortunata... avrai due piani completi. Lascia che quello di sopra marcisca. Quaggiù starai benissimo.»

«Va' a farti fottere,» disse lei. Norvell trasalì, inorridito. «Se non sei capace di trovare della carta catramata, vedi se riesci a trovare qualcosa che possa andare bene per il coperto. Dei fogli di latta potrebbero andare bene.»

«Andrebbe bene anche il tetto di una G.M.L.,» disse acidamente Shep, ma prese nota. Gettò un paio di razioni ai ragazzini in attesa, che le presero, e portarono via il loro carro vuoto. Poi disse, «C'è altro?»

Virginia, con un'improvvisa scintilla di ospitalità, disse:

«Oh, penso di no. Vuoi bere qualcosa?»

Norvell, per cortesia, bevve un sorso dalla bottiglia che Virginia aveva tirato fuori, e che aveva ottenuto in cambio di legna da ardere dall'ottuagenario dall'aspetto torvo e sinistro che abitava nella casa accanto. Il liquore non gli piaceva affatto. Aveva il medesimo sapore della frutta compressa che gli era piaciuta moltissimo, quando l'aveva trovata nella sua scatola di razioni; ma il sapore era sopraffatto dall'alcol. In realtà, quel che a lui piaceva era la birra. Ma pareva che non ci fosse birra, a Torcibudella.

Shep e Virginia stavano parlando; Norvell lasciò che la conversazione scivolasse intorno a lui, senza coinvolgerlo. Si appoggiò stancamente allo schienale della sedia, esausto. La stanchezza fisica era qualcosa di nuovo, per Norvell Bligh. Non l'aveva mai provata da bambino non l'aveva mai provata durante gli anni di lavoro alla Generale Ricreativa.

Com'era possibile che non fare niente provocasse fatica fisica, mentre svolgere un lavoro veramente creativo, produttivo... per esempio, organizzare una Giornata dei Giochi... causava soltanto un affaticamento mentale? Norvell lo ammise tra sé: stava già cominciando ad assumere la colorazione di Torcibudella. Come tutti gli altri abitanti di Torcibudella, scoraggiati, senza speranza, lui viveva alla giornata, e ignorava il domani. Razioni, e un luogo dove dormire. Forse non sarebbe passato molto tempo, si disse, pensieroso, e lui si sarebbe trovato a fare la coda, come tutti quegli altri individui scimmieschi che attendevano il loro turno per entrare allo Stadio di Monmouth.

A meno che lui non avesse trovato qualcosa da fare. Ma cosa c'era da fare? Lavorare in casa? I lavori essenziali erano stati ultimati; le riparazioni erano cominciate, i rifiuti erano stati portati fuori, in strada, dove ora formavano un mucchio simile a tutti gli altri che fiancheggiavano la via, anonimi e informi. Le cose meno urgenti non potevano essere realizzate. Era impossibile finire di sistemare il tetto... non c'erano le tegole. Non si potevano riparare le scale... non c'era il materiale, e non c'erano gli attrezzi. E, sopra ogni altra cosa, mancava la capacità di farlo.

Disse, eccitato senza rendersi conto di interrompere gli altri due:

«Virginia! Che ne diresti se cominciassimo a farci un giardino? Un paio di alberi da frutta... aranci magari. E un filare di...»

Virginia cominciò a ridere e continuò a ridere in maniera quasi isterica. Anche Shep cominciò a ridacchiare. Virginia disse:

«Mio caro marito gli aranci non crescono da queste parti. Qui non cresce niente. Comincia a scavare, qui, e prima trovi mezzo metro di rifiuti e rottami, poi circa dieci centimetri di cenere e di sporcizia. Poi trovi il vero terreno... sabbia.»

Norvell sospirò.

«Deve esserci qualcosa da fare.»

Shep offrì un suggerimento:

«Potresti dipingere la tua baracca, se ti senti ambizioso. So dove trovare la vernice adatta.»

Norvell sollevò il capo, interessato. Accettò la bottiglia, e bevve un breve sorso.

«Verniciare la casa? E perché no? Non vedo alcun motivo per cui non possiamo rendere questo posto un po' più decente, no?»

Shep si strinse nelle spalle.

«Dipende. Se vuoi metterti in affari, dipingere la casa è una buona pubblicità. Se invece vuoi solo tirare a campare, può darsi che non ti convenga fare troppa pubblicità. Ti metteresti troppo in vista, e la gente comincerebbe a farsi delle idee.»

Norvell disse, vagamente deluso:

«Pensi ai furti?»

Virginia prese la bottiglia.

«Balle,» disse, in tono pratico, bevendo un lungo sorso. «Non dipingeremo un accidente.»

Ci fu una lunga pausa. Nella casa a bolla G.M.L., ricordò Norvell, Virginia non aveva mai lasciato dubbi su chi comandasse in casa, ma raramente aveva manifestato il suo potere di fronte ad estranei.

Ma ora non si trovavano più in una casa a bolla.

Voglio Arnie, gridò mentalmente Norvell, sentendosi improvvisamente infelice. Non andava affatto bene, non era come aveva detto lui. Arnie aveva detto che lui avrebbe avuto l'occasione per esprimersi, per salvare il suo matrimonio, per dimostrare le proprie qualità. E invece, andava tutto diversamente!

Reclamò la bottiglia. Il sapore di quel maledetto liquore, ora, gli pareva disgustoso; pensò, fuggevolmente, che non avrebbe mai più potuto apprezzare quei concentrati di frutta. Ma bevve un lungo sorso. Ne aveva bisogno.

Shep stava dicendo:

«... non è andata male, oggi. Stearns mi ha dato qualche fastidio, e se Norvell non gli avesse puntato contro la pistola, forse non sarei riuscito a procurarmi la roba così facilmente.»

Virginia guardò suo marito, con approvazione. Ma rivolgendosi a Norvie disse, semplicemente:

«Farai bene a tener d'occhio quell'arma. Alexandra ha tentato di filar via con il mio coltello da cucina, oggi.»

«Eh?» trasalì Norvell.

«Proprio così. Ha fatto una scenata,» disse lei, quasi con ammirazione. «È entrata nei Granatieri Goering, e sembra che loro vadano in giro con coltelli e pistole. Disprezzano i Coniglietti e le loro bottiglie rotte.»

Norvie bevve un altro sorso di liquore. Disse, vagamente:

«È proprio necessario che lo faccia?»

Shep disse, cupamente:

«Se vuole sopravvivere, deve farlo. Cerca di capire, Norvie... questa è Torcibudella, non è un collegio di lusso. È una continua Giornata di Giochi, ma senza regole.»

Ecco finalmente un argomento sul quale lui sapeva qualcosa, pensò Norvell, rischiarandosi.

«Tu hai mai partecipato a una Giornata dei Giochi?» domandò.

«No. Solo agli spettacoli settimanali.»

«Oh, dovresti farlo, Shep. È la che si riesce veramente a guadagnare del denaro. E non è eccessivamente pericoloso, se sei furbo. Per esempio, gli alabardieri nell'Inferno di Spillane. Un lavoretto di tutto riposo. E, dal punto di vista artistico, lasciami dire per esperienza che...»

«Accidenti a tutti gli alabardieri, Bligh,» disse Shep, in tono sferzante. «Non lo farò mai più. Ci sono stato, a infilare quei poveri disgraziati che cadevano dal filo prima di raggiungere la bionda. Sono stato anche sul filo, una volta.» Afferrò la bottiglia, e il suo volto era duro e inespressivo. «Lei mi ha mancato, tutte e otto le volte. Io le ho fratturato il femore, con il primo colpo. Poi ho lasciato cadere la pistola.» Bevve un lungo sorso. «Mi hanno fischiato, lo Stadio era tutto un ululato di scherno. Non ho ottenuto il premio che spettava a chi riusciva a uccidere. Non ho ottenuto neppure il premio di chi centrava il diaframma, né il super-premio che avrei riscosso, perforandole esattamente l'ombelico. E non li volevo neppure. Io volevo soltanto dei pennelli, delle tele, dei carboncini e dei colori. Li ho avuti, Bligh, e ho scoperto di non poterli usare. Per sei maledettissimi mesi. Poi, per altri sei mesi, non sono più stato capace di dipingere nulla, all'infuori del suo viso, nel momento in cui veniva colpita dal sasso, e cadeva giù dalla pertica.»

Norvell disse:

«Oh.» Contemplò la bottiglia, con disgusto. Si alzò in piedi, barcollando lievemente. «Io... io credo di avere bisogno di un po' di aria,» disse. «Scusatemi.»

«Certo,» disse Virginia, senza neppure guardarlo. Mentre usciva, Norvell sentì che lei chiedeva a Shep, «Quella bionda che hai colpito... era carina?»

 

CAPITOLO XIV

 

Mundin non venne seguito fuori dalla Borsa.

Arrivò a Torcibudella nel tardo pomeriggio, con la sua azione della G.M.L. al sicuro in tasca. Ryan era sobrio, lucido, e giubilante.

«Ah,» esclamò Ryan. «Un'azione con diritto di voto. L'assemblea è per domani. E abbiamo fatto centro al primo assalto. Una buona giornata, avvocato.»

«Lo spero,» disse Mundin, esausto, una reazione naturale dopo la tensione della mattinata. «Spero che questa azione sia sufficiente a farmi entrare. Se non fosse registrata, o se facessero opposizione?»

Ryan disse, con calma:

«Non possono. Id certum est quid reddi potest,avvocato.»

«Oh, naturalmente, avvocato,» lo rimbeccò Mundin. «Ma affirmantis est probatio,lo sa meglio di me.»

Ryan batté le palpebre, e sogghignò.

«Un punto a suo favore,» disse, amabilmente. «Be', diavolo, Mundin, lei può solo andare là tranquillamente, con un bel sorriso. L'azione è il suo biglietto di ammissione. Se non la lasciano entrare, dovremo pensare a qualcosa d'altro, ecco tutto.»

Mundin disse, dubbioso:

«Fino a questo momento lei ha avuto ragione, direi.» Si alzò in piedi, e cominciò a camminare nervosamente nella stanza squallida, andando quasi a incespicare nei piedi di Don Lavin. «Scusi,» disse al giovane, brevemente, cercando di non guardare i suoi occhi fissi e scintillanti. Don Lavin gli faceva venire i brividi. E c'erano notevoli possibilità, pensò, che quanto era accaduto a Don Lavin potesse, presto o tardi, accadere anche a lui, se continuava a ficcare il naso nelle faccende delle grandi società.

Mundin domandò:

«Nessuna notizia di Norma, immagino?»

Ryan scosse il capo.

«Non intendono mollarla, Mundin. Dovrà cercare di strapparla dalle loro grinfie domani. Vorrei poter venire con lei...»

«Oh, accidenti, venga,» disse Mundin. «Sarei felice di averla con me. Morristown le piacerà senz'altro... è così simile a Torcibudella.»

«Non riuscirei mai a sopportare il viaggio. Dovrà giocare da solo, avvocato. Ho piena fiducia in lei, ragazzo mio. Tenga la testa a posto, e ricordi qual è la natura fondamentale di una grande società privata.»

«Un'entità legale,» cercò di indovinare Mundin. «Una persona giuridica.»

«No, ragazzo mio.» I vecchi occhi scintillavano, nella faccia devastata. «Dimentichi tutte queste cose. Pensi piuttosto a una corte orientale, a un campo di battaglia, a un governo, a una partita a poker che non finisce mai. L'essenza di una grande società è il sottile flusso di potere, che ora innalza un uomo, ora abbatte un gruppo. Lei non può resistere al potere, ragazzo mio, ma può guidarlo.» Con mano tremante, prese la scatola ammaccata delle pillole. «Oh, se la caverà,» disse. «La cosa più importante, per lei, è quella di sparire, ora. Si perda. Non si faccia vedere da nessuno, fino a quando non farà la sua apparizione all'assemblea. Se fossi in lei, non ritornerei in ufficio, o nel suo appartamento.» Lanciò uno sguardo a Don Lavin, e Mundin si sentì venire la pelle d'oca.

«Cosa devo fare, allora?» domandò Mundin. «Vuole che rimanga qui?»

«Dove vuole. Basta che nessuno la veda.»

Mundin diede un'occhiata all'orologio. Se avesse potuto dormire... se avesse potuto coricarsi in quel momento, per svegliarsi solo al momento di andare all'assemblea. Ma era troppo presto, per fare questo; e, inoltre, sapeva che ben difficilmente avrebbe potuto prendere sonno. Aveva circa ventiquattro ore libere, ventiquattro ore, per pensare, e innervosirsi, e perdere la sua fredda determinazione.

«Vado fuori,» disse. «Non so se ci vedremo prima dell'assemblea, oppure no.»

 

Mundin salutò Don Lavin, che non si accorgeva nemmeno della sua presenza, e cominciò ad aggirarsi nel crepuscolo che si addensava nelle tortuose strade di Torcibudella. Girare era relativamente sicuro fino al calare della notte; cambiò per due volte direzione, quando vide dei gruppi di uomini o di bambini che avevano un'aria particolarmente decisa, ma prima del calar del sole c'erano poche possibilità di venire attaccato.

Si trovò vicino alla stazione di reclutamento della Generale Ricreativa & Educativa, e si sentì più sicuro là, al riparo dell'invitante costruzione color rosa confetto. La Generale Ricreativa pattugliava la zona con le sue guardie private; era un ottimo posto per prendere un tassì e ritornare a Monmouth.

Ma non c'era fretta. Mundin studiò i chiassosi manifesti e gli uomini e le donne che chiacchieravano tra loro. Era la prima volta che si trovava vicino alla materia prima di cui erano fatti gli spettacoli che si svolgevano allo Stadio, e provava la strana sensazione di essere un intruso. Aveva visto gli spettacoli, naturalmente. Moltissimi, a suo tempo. Quando era stato nel Texas, era andato religiosamente alle Giornate dei Giochi per Bambini. Da adolescente era stato un fanatico, scalmanato tifoso, capace di citare con esattezza tutti i dati sulle ore di combattimento, sulla percentuale delle uccisioni, sul quoziente di sopravvivenza, e così via. Naturalmente il suo entusiasmo si era calmato quando la Società degli Studi aveva approvato la sua domanda, ed era entrato nella facoltà di legge, e successivamente non era più riuscito a ritrovare l'antico entusiasmo. Non pareva una cosa adatta a un membro dell'ordine... niente di particolare contro i giochi, naturalmente; ma da un avvocato ci si aspettava la ricerca di qualche forma più cerebrale e sofisticata di divertimento.

Come, per esempio, schivare i creditori, si disse amaramente.

Dalla folla, qualcuno chiamò:

«Avvocato Mundin! Ehi, avvocato Mundin!»

Trasalì, e si voltò, pronto a darsela a gambe.

Ma era solo, come si chiamava... Norvell Bligh, ecco chi era. Il cliente che Dworcas gli aveva mandato. Ma com'era ridotto!

E poi Mundin ricordò: Bligh aveva perduto il suo contratto. Un contratto con la Generale Ricreativa, particolare abbastanza ironico... soprattutto trovandolo proprio in quel posto!

L'ometto si avvicinò, ansando, a Mundin, e gli afferrò le mani. Aveva gli occhi umidi.

«Avvocato Mundin... mio Dio, è meraviglioso vedere un viso amico! Era... era forse venuto a cercare me?»

«No, signor Bligh.»

Il volto di Bligh impallidì, e tradì la delusione.

«Oh. Io... ehm... pensavo che forse lei avrebbe avuto un messaggio per me... come mio avvocato, sa... forse la società... Ma non lo farebbero mai, naturalmente.»

«No, infatti,» disse Mundin, gentilmente. Si guardò intorno; non riusciva a sopportare la vista dell'infelicità di quell'ometto, e non poteva deluderlo, abbandonandolo così, freddamente. Disse, «C'è qualche posto in cui possiamo andare a bere qualcosa, da queste parti?»

«Se c'è!» Mundin ebbe l'impressione che Bligh stesse per mettersi a piangere. «Mio Dio, avvocato, le cose che ho visto nella settimana che ho passato qui!»

Si guardò intorno, per orientarsi e fare da guida, e Mundin lo seguì. C'era soltanto mezzo isolato, per raggiungere il più vicino spaccio clandestino. Bligh bussò a una porta buia.

«Mi manda Shep,» disse, a una donna dal volto ostile che lo fissava attraverso uno spioncino.

All'interno, il locale puzzava di alcol. Sedettero a un tavolaccio di legno, nel soggiorno, malconcio, e attraverso i tendaggi logori Mundin vide lo scintillio di tubi di rame e di pentole lucenti. A quell'ora, erano i soli clienti.

La donna domandò, in tono cantilenante:

«Bottiglia d'uva? Bottiglia di razione? Majun? Marijuana? LSD? Gin?»

«Gin, per favore,» si affrettò a dire Mundin.

Ne arrivò una bottiglia da un quarto. Mundin sbalordì, quando lei disse:

«Cinquanta centesimi.»

«Concorrenza,» spiegò Bligh, quando la donna se ne fu andata. «Se fossi stato solo io, me l'avrebbe venduta a venticinque centesimi, ma naturalmente ha capito che lei era nuovo di queste parti.»

«Non esattamente,» disse Mundin. «Alla sua salute!»

Bevvero. Dapprima, Mundin ebbe l'impressione che qualcuno lo avesse colpito alla nuca con un martello. Poi si accorse che si trattava del gin.

Raucamente, con le lacrime agli occhi, domandò a Bligh:

«Come se la è cavata?»

Bligh scosse il capo, e le lacrime che scintillavano nei suoi occhi non erano dovute al gin.

«Non me lo chieda,» disse, amaramente. «È stato un inferno, un giorno dopo l'altro, sempre lo stesso inferno, senza fine. Come me la sono cavata? Non avrebbe potuto andare peggio, avvocato. Vorrei che il cielo mi concedesse...» si interruppe, appena in tempo, sull'orlo del crollo nervoso. Poi raddrizzò il capo, e sedette in una posizione più eretta. «Mi scusi,» disse. «Ho bevuto per tutto il pomeriggio. E non ci sono abituato.»

«Non si preoccupi,» disse Mundin.

Bligh disse:

«Certo.» Guardò Mundin, con un'espressione stranamente familiare; Mundin, cercando di identificarla, udì uscire precipitosamente le parole dalle labbra di Bligh, mentre l'ometto gli afferrava impulsivamente il braccio, e diceva, «Senta, avvocato Mundin, lei può aiutarmi. La prego! Deve avere qualcosa. Un grande avvocato come lei... che lavora per il partito, e tutto il resto... lei deve avere qualcosa! Non mi aspetto certo un contratto e una G.M.L.; li avevo; sono stato uno stupido; li ho gettati via. Ma deve esserci qualche lavoro, qualsiasi tipo di lavoro, che mi permetta di uscire da Torcibudella prima che io diventi pazzo del tutto, e...»

Mundin, cercando di ricacciare nel profondo dell'inconscio il ricordo dei suoi sentimenti di fronte a Willie Choate, e della supplica che aveva rivolto solo mentalmente al vecchio compagno disse, seccamente:

«No! Non posso, Bligh. Non ho alcun lavoro da darle.»

«Niente?» esclamò Norvell. «Non c'è niente che io possa fare per lei, qui, avvocato Mundin? Me lo chieda. Io ho dei contatti; conosco i fili da muovere; me lo chieda

Era un'idea completamente nuova. Mundin disse, incerto;

«Be'... be', a dire il vero, potrebbe esserci qualcosa, a pensarci bene. Io stavo cercando di rintracciare... ehm... un'amica, qui a Torcibudella. Una ragazza che si chiama Norma Lavin. Se lei pensa di potermi aiutare a trovarla...»

Bligh lo guardò, con aria inespressiva:

«Vuole che io le trovi una ragazza?»

«Una cliente, Bligh.»

Bligh si strinse nelle spalle.

«Sicuro, avvocato Mundin.» Poi, ansiosamente. «Scommetto che posso farlo. Ho degli amici... dei contatti... lasci fare a me. Vuole venire con me? Posso mettermi al lavoro subito. Ho imparato molte cose, in una settimana; posso mostrarle quali sono i fili da muovere.»

Mundin esitò. Perché no? In fondo, il suo compito era quello di sparire, fino al momento dell'assemblea, almeno. Tenersi alla larga dalla città...

«Ma certo,» disse a Bligh. «Mi guidi lei.»

 

All'inizio, Mundin ebbe il sospetto che Norvell fosse già diventato completamente pazzo.

Bligh lo guidò, attraverso le ombre sempre più fitte, verso un'area di terreno libera... dove un incendio aveva distrutto una delle più belle proprietà di 200 metri quadrati della vecchia Tour De Cybele. E poi l'ometto si portò le mani alla bocca, a coppa, e cominciò a ululare lugubremente nel buio:

«Coniglì, Coniglié, Coniglietti qui da me!»

Mundin, stupefatto, esclamò:

«Che cosa?...»

Bligh si portò l'indice alle labbra, con aria misteriosa:

«Aspetti.»

Aspettarono. Due minuti; cinque. Poi una piccola figura spuntò pigramente dall'oscurità.

L'apparizione domandò, con aria sospettosa:

«Chi vuole un Coniglietto?»

Bligh, orgogliosamente, presentò Mundin.

«Questo signore sta cercando una signorina...»

«Scemenze, amico. Noi Coniglietti non...»

«No, no! Una signorina particolare. Una persona che è scomparsa.»

Mundin aggiunse:

«Si chiama Norma Lavin. È scomparsa una settimana fa. Abitava al numero 37598 di Willowdale Crescent. Guidava una vecchia Cadillac.»

«Uhm. Territorio tabù... dei Granatieri Goering, quello,» li informò la giovane voce acuta. «Abbiamo preso un Granatiere come prigioniero, però. Cosa ci guadagnano i Coniglietti, in questa faccenda?»

Bligh bisbigliò a Mundin:

«Dieci dollari.»

Mundin disse, prontamente:

«Dieci dollari.»

«Per cominciare?»

«Certo.»

«Venite.» Il Coniglietto li guidò, a un passo impossibile, attraverso un paio di chilometri di Torcibudella. Una volta, un bruto massiccio e altissimo si affacciò a guardarli, dal vano buio di una porta, borbottando. Il bambino ringhiò, «Fila. Coniglietti!» L'uomo sparì; nel pugno del Coniglietto aveva lampeggiato, per un istante, il bordo tagliente di una bottiglia rotta.

Continuarono. Poi udirono un coro crescente in fondo a una strada, un coro ritmico e minaccioso:

«Dan-na-tissimi! Dan-na-tissimi! Dan-na-tissimi...

«Dentro, qui!» esclamò il Coniglietto, precipitandosi in una casa buia. Due vecchi, uomo e donna, sorpresi, erano rannicchiati davanti a un caminetto spento; i due sollevarono lo sguardo una volta, e poi non li guardarono più, dopo avere visto l'insegna della bottiglia rotta. Il Coniglietto disse a Mundin, brevemente, «Pattuglia. Questo è territorio dei Dannatissimi.»

Guardarono fuori, attraverso le fessure delle assi che coprivano la veranda panoramica rotta. I Dannatissimi, che continuavano a urlare, passarono in formazione compatta... erano circa una cinquantina, e agitavano con aria minacciosa delle mazze improvvisate. Alcuni portavano delle torce; un ragazzino, davanti a tutti, reggeva un lungo palo, decorato, alla sommità, con... con...

Mundin si coprì gli occhi, lanciando un'esclamazione soffocata.

Venne ignorato. Il Coniglietto, corrugando la fronte mormorò:

«Non è una pattuglia. Una spedizione di guerra, verso occidente.»

Mundin disse, rigidamente:

«Mio Dio, ragazzo, lui portava...»

Il ragazzino si mosse rapidamente. La bottiglia rotta venne puntata contro la gola di Mundin, che parve chiudersi, solidamente come il portello di un sottomarino.

«Non fare rumore, amico,» mormorò il Coniglietto. «Ci sarà una retroguardia.»

Infatti c'era.

Li si vedeva appena. Erano vestiti di nero; avevano le facce e le mani colorate di nero.

«Va bene,» disse il Coniglietto, alla fine, e scivolò fuori. Il vecchio e la vecchia, che continuavano a ignorarli, stavano masticando le loro razioni, e discutevano a bassa voce su chi avrebbe dovuto fare a pezzi la sedia, per accendere il fuoco.

 

Entrarono in una casa, simile alle altre case, ma piena di bambini pallidi, dagli occhi di serpente, che avevano delle età comprese tra gli otto e i tredici anni, almeno a giudicare dall'aspetto.

«E questi chi sono?» domandò una ragazzina al loro Coniglietto.

«Ciao, Lana,» disse timidamente Norvell Bligh. Lei lo fulminò con un'occhiata, e poi si rivolse di nuovo alla loro guida.

«Clienti,» disse il Coniglietto, con la sua voce acuta. «Persona scomparsa. Dieci carte. E un'altra cosa importante: una spedizione di guerra dei Dannatissimi, che si dirige verso ovest, incontratala sul Livonia Boulevard, isolato 45330, alle sette e cinquanta. Una cinquantina, con quelle loro mazze. Avanguardia e retroguardia.»

«Bene,» disse Lana, con calma. «Non sono fatti nostri; probabilmente vanno a rubare da qualche parte. Chi è la persona scomparsa?»

Mundin glielo disse.

Come già aveva detto la loro guida, Lana disse:

«Uhm. Territorio dei Granatieri Goering. Be', ne abbiamo uno in solaio. Vuoi che glielo chieda, signore... per cinquanta carte?»

Mundin pagò.

Il granatiere Goering che si trovava in solaio era un bambino di otto anni, preso prigioniero durante un'incursione nel quartiere generale dei Granatieri. All'inizio, si limitò a imprecare e a sputare contro di loro. Poi Lana assunse la direzione dell'interrogatorio. Charles se ne andò, precipitosamente.

Il Granatiere stava ancora piangendo, quando Lana lo raggiunse, al piano di sotto, e disse:

«Ha parlato.»

«Dove?»

«I primi cinquanta erano per chiederglielo. Per dirtelo, fuori altri cinquanta.»

Mundin bestemmiò, e si frugò nelle tasche. Aveva trentasette dollari e ottantacinque centesimi. Lana si strinse nelle spalle, e accettò con buona grazia venticinque dollari. Poi disse:

«A quanto pare, esiste un certo signor Martison. Dà dei lavori ai G.G., di quando in quando. Ha detto al Grosse Hermann... il loro capo... che voleva che rapissero e drogassero quella ragazza Lavin. Dovevano consegnarla in un posto, a Long Island. Il ragazzo non ha proseguito; non ricorda esattamente l'indirizzo. Dice che, se lo sentisse, potrebbe...»

Mundin salì le scale come un fulmine. Gridò, rivolgendosi al bambino piangente:

«Stanza 2003, Palazzo dell'Amministrazione, Morristown, Long Island?»

«È quello, signore,» disse il bambino, tirando su col naso. «Glielo avevo detto che, se lo avessi sentito, l'avrei ricordato...»

Mundin ritornò nel soggiorno, e si appoggiò a una parete, pensieroso. Così Norma veniva tenuta a disposizione, per l'assemblea degli azionisti. Perché? Un altro condizionamento? Un trasferimento forzato del suo pacchetto azionario? No... non del suo pacchetto, lei non era proprietaria neppure di un'azione. Il pacchetto azionario di Don Lavin. Lei era legataria... le azioni erano di suo fratello...

Così loro avrebbero fatto fuori suo fratello, e si sarebbero ritrovati con la proprietaria delle azioni in loro mano.

Era semplicissimo.

Mundin disse a Lana:

«Ascolta. Hai visto che non ho più denaro, almeno in questo momento. Ma ho bisogno di aiuto. Questa faccenda è grossa... più grossa di quanto tu possa immaginare. Ci sono in gioco... be', migliaia di dollari.» Che stupido sarebbe stato se avesse detto la verità, e cioè miliardi di dollari! «È una faccenda grossa e complicata. Prima di tutto, non potresti organizzare una guardia intorno al 37598 di Willowdale? Credo che i vostri amici Granatieri siano incaricati di far fuori un giovanotto che si chiama Don Lavin.» Non aspettò una risposta, ma proseguì, con decisione. «Secondo, puoi portarmi al Palazzo dell'Amministrazione a Morristown? Se questa faccenda va in porto, ti giuro che ne ricaverete un buon guadagno.»

Lana parve valutarlo per qualche istante. Poi disse:

«Si può fare. Potremo contrattare dopo.»

Lanciò rapidamente degli ordini. Un gruppo di ragazzini, in silenzio, prese le bottiglie rotte dalla mensola del caminetto, e uscì.

Lana disse, in tono conclusivo:

«I G.G. non faranno niente al tuo amico. In quanto a Morristown... be', se i G.G. possono consegnare qualcuno là, penso che possiamo farlo anche noi. Sinceramente, la faccenda mi piace poco. Morristown è dura. Ma abbiamo un accordo con gli Itty-Bitty, laggiù. Sono dei furbastri; usano delle pistole; ma...»

Scrollò le spalle, con aria rassegnata. Bisognava tirare avanti in qualche modo, diceva quel gesto.

Mundin si accorse che stavano per scortarlo alla porta.

«Aspetta un momento,» disse. «Voglio nascondermi da qualche parte, per passare la notte. Ci vedremo domattina, ma fino ad allora?»

Bligh si offrì:

«Che ne dice di casa mia, avvocato Mundin? Non è un granché, ma abbiamo delle inferriate alle finestre, e una buona sbarra.»

Lana annuì.

«Va bene così. Domattina... e adesso cosa c'è?»

Uno dei Coniglietti arrivò silenziosamente dalla porta, e le disse:

«Vedette dei Granatieri. Ne abbiamo preso uno, ma ce ne sono altri due in giro. Potrebbe trattarsi di un'incursione.»

«Li sistemeremo noi,» disse Lana, cupamente. «Immagino che vogliano indietro il loro ragazzo. Venite, voi due; dovrò farvi scortare fuori di qui.»

Fu lei stessa a scortarli. La strada era buia e silenziosa; prima che avessero fatto tre passi, Lana era già diventata invisibile. Mundin seguì Bligh con una certa apprensione, anche se l'altro si muoveva con fiducia.

Lana si materializzò dall'oscurità, e disse:

«Fermi! C'è uno dei Granatieri Goering, dietro quello steccato. Una ragazza. Ci penso io...»

La sua bottiglia scintillò. Bligh parve annaspare, e l'afferrò appena in tempo per le spalle, un attimo prima che lei calasse la bottiglia tagliente sul capo di un ragazzina dalla faccia paffuta. Lana cadde al suolo, bestemmiando, mentre Bligh si rivolgeva alla sua figliastra:

«Sandy, fila via subito. Questi sono amici miei. Poi facciamo i conti a casa!»

Alexandra, cercando di liberarsi dalla stretta del patrigno, disse, con filosofia:

«Spiacente, Norvell. È così che va il mondo.» Gettò all'indietro la testa, lanciando uno stridulo richiamo, «Sieg-heil! Sieg.»

Norvell trattenne con una mano Lana, e con l'altra misurò la distanza dalla mascella di Alexandra. Il colpo fu violento, e mise fuori combattimento la ragazzina. Norvell se la caricò sulle spalle, e ansimò:

«Andiamo, Mundin. Tu facci strada, Lana.»

Dieci minuti dopo Mundin dovette sollevare l'ometto del peso di Alexandra. Quando le ginocchia di Mundin cominciarono a piegarsi per la fatica, la ragazzina stava già riprendendo i sensi.

Bligh le parlò, a bassa voce e con estrema serietà, accarezzandosi il pugno, con aria significativa. Dopo questo, lei li seguì, imbronciata ma obbediente.

La signora Bligh cercò di fare una scenata, quando i quattro arrivarono.

«E tu, dove sei stato?» gridò a Norvie. «Sei uscito senza dire una parola... sei stato fuore per ore e ore... avremmo potuto...»

Norvell le disse che non erano affari suoi. Lo disse in una maniera tale, che Alexandra rimase a bocca aperta per l'indignazione, e Lana per l'ammirazione. Mundin arrossì, per il linguaggio, ma pensò che Torcibudella cominciava a fare effetto anche sul piccolo signor Bligh. E non si trattava di un effetto necessariamente negativo.

«E,» concluse Norvell, «Se ti scopro ancora con quello scimmione peloso di Shep, ci saranno dei guai. Ti avverto!»

«Ah!» sghignazzò Virginia Bligh. «Suppongo che tu voglia suonargliele! Proprio tu!»

«Non dire scemenze,» disse Bligh. «Potrebbe spezzarmi in due. Aspetterò che se ne vada, e poi le suonerò a te

Lana disse, soavemente;

«Adesso me ne vado. Che ne facciamo di questa piccola fetente?» Indicò col pollice l'imbronciata Alexandra.

«Me ne occuperò io,» disse Bligh. «Ha solo bisogno di una lezione, e niente altro.»

Lana lo valutò con un'occhiata.

«D'accordo,» disse. «Ci vediamo domattina.» Se ne andò, e Virginia Bligh, ripreso fiato, si preparò al secondo attacco.

Mundin disse:

«Per favore! Domarti avrò una giornata durissima... potrei dormire, adesso?»

 

CAPITOLO XV

 

Passarono la mattina a Monmouth vecchia, Mundin, Lana, e Norvie Bligh, che li seguiva, con funzioni vagamente segretariali.

Per prima cosa si fermarono alla banca di Mundin, dove egli inserì la sua chiave, premette la combinazione di tasti di 'Chiusura di Conto',e raccolse le banconote che scivolarono fuori dalla fessura.

Le contò, con aria malinconica. Duecentotrentaquattro dollari, più ottantacinque centesimi in moneta. Lana sembrava affamata, e Mundin ricordò che le doveva ancora venticinque dollari, il saldo per la prestazione della sera prima. Le diede quella somma, con una certa riluttanza.

Mangiarono da Hussein. Quando furono giunti al caffè, Lana mormorò, pensierosa:

«Immagino che i pezzi grossi andranno a Morristown a bordo di automobili corazzate. Peccato che noi non siamo ricchi. Be', andiamo al posto di partenza, adesso.»

Un tassì li portò, attraverso la galleria della Baia, fino alla stazione di partenza per Long Island, nella Vecchia Brooklyn. Tanto per scrupolo, andarono allo sportello dei biglietti.

«Nossignore,» disse l'impiegato, in tono definitivo. «C'è solo un treno al giorno, corazzato. Solo per le persone autorizzate. E cosa diavolo vuole andare a fare a Morristown, lei?»

Tentarono anche con la società degli autobus, per telefono, senza migliore fortuna. Fuori della stazione ferroviaria, all'inizio della fila dei tassì, Lana incominciò a piangere.

«Ehi, piccolina,» disse in tono dolce uno dei tassisti, lanciando un'occhiata sospettosa a Bligh e a Mundin. Era un tipo paterno. «Cosa succede?»

«È il mio papà,» singhiozzò Lana, in modo da spezzare il cuore. «È in quel terribile posto e si è perduto e la mia mamma dice che dobbiamo andare ad aiutarlo. Signore, ci porti fino al confine, per piacere! Per piacere! E zio Norvie e zio Charlie non permetteranno che accada qualcosa di brutto, se quei basta... se quegli uomini cattivi di Morristown tenteranno qualcosa. Davvero!»

L'autista cedette, a quelle parole, e acconsentì ad accompagnarli fino al confine. Era un viaggio di due ore, su strade pessime.

Il tassista fece sedere Lana accanto a sé, sul sedile davanti. Agitando allegramente la sua borsetta, con la volubilità di una bambina, lei chiacchierò con lui, e sorrise, per tutto il viaggio. Zio Norvie e zio Charlie si scambiarono delle occhiate. Sapevano quello che c'era dentro la borsetta.

Morristown, essendo più vecchia, era meglio organizzata di Torcibudella. Il tassista si fermò, a un paio d'isolati dalla barriera doganale, tra le erbacce che crescevano dappertutto.

«Eccoci arrivati, bambina,» disse, teneramente.

La 'piccolina' infilò la mano nella borsetta. Tirò fuori la sua bottiglia rotta, e conversò in tono molto convincente con il tassista. Lui bestemmiò, gemette, e si rimise in moto.

Al cancello, un paio di uomini guardarono nella macchina, con aria allegra. Lana bisbigliò qualcosa... Mundin riuscì a cogliere le parole 'Coniglietti' e 'Itty-Bitty'... e gli uomini fecero loro segno di proseguire. Un isolato dopo il cancello, obbedendo agli ordini di Lana, il tassista fermò l'auto a un altro posto di blocco, presidiato da un paio di ragazzini di nove anni, dalla faccia sporca, e armati di carabine.

Ottenero una guida; un Itty-Bitty con una carabina. Lungo il percorso per le strade affollate, verso il Palazzo dell'Amministrazione, non pochi adulti impallidirono, e si ritirarono fuori vista, quando lo videro aggrappato al tassì.

Davanti al Palazzo dell'Amministrazione, Lana disse seccamente al tassista:

«Aspetta.»

Mundin scosse il capo.

«No,» le disse, indicando la fila di veicoli corazzati, cingolati e a ruote che erano allineati nel parcheggio del palazzo. «O usciremo a bordo di uno di quelli, o non usciremo affatto.»

Lana si strinse nelle spalle.

«Non ci arrivo, ma se lo dici tu...» Si rivolse all'Itty-Bitty. «Fa' passare il tassì, d'accordo? E quando avrete bisogno di qualcosa a Torcibudella, sapete a chi rivolgervi.»

 

Era l'una; l'assemblea era prevista per l'una e mezzo.

Il posto di controllo, nell'atrio, lasciò passare Mundin e Bligh, in forza del certificato azionario di Mundin. Lana doveva aspettare nella sala d'attesa.

La Stanza 2003 era un appartamento... probabilmente occupava l'intero piano, sospettò Mundin. Disse alla receptionist:

«Assemblea degli azionisti, Case G.M.L.»

La receptionist li fece passare, spalancando gli occhi, e scrutandoli con aria pensierosa.

Una ventina di uomini riempivano la sala dell'assemblea. Erano tutti, visibilmente, dei Titani. Tra quella gente vestita in maniera ricca e sobriamente elegante, Mundin e Bligh si sentirono due scalcinati intrusi. Erano anche ridicolmente giovani e impacciati:

Da questo momento in poi, sarà davvero dura, si disse Mundin. Una battaglia legale contro una grande società, esercitando diritto civile!

La visione lo accecò, nel suo splendore.

Un altro nuovo arrivato fu allegramente salutato dai Titani.

«Bliss, vecchio mio! Mai pensato che ti volessi scomodare per questa sciocchezza. Il vecchio Arnold ti calpesterà dalla testa ai piedi, come al solito.»

Bliss era snello, e molto più giovane della maggior parte degli altri.

«Se un paio di voi smidollati volesse appoggiarmi, riusciremmo a bloccarlo,» disse, in tono gioviale. «D'altra parte, non avevo di meglio per ingannare il tempo.» Poi, in tono vagamente complice, «E qualcuno mi ha parlato anche di una certa signorina Laverne...» Questa battuta suscitò l'ilarità generale.

Mundin si introdusse nel gruppo.

«Piacere di conoscerla, signor Bliss,» disse, ansiosamente, afferrando la mano dell'altro. «Sono Charles Mundin, ex candidato dei Repubblicani Ortodossi per il ventisettesimo distretto... e piccolo azionista, qui.»

L'uomo magro liberò con gentilezza la sua mano.

«Mi chiamo Hubble, caro signore, Bliss Hubble. Piacere mio.» Si rivolse a uno dei Titani e domandò, in tono ironicamente bellicoso. «Non hai ricevuto il mio telegramma, Job? Come mai, allora, non ho ricevuto la tua procura per la faccenda del contratto?»

Job pareva un tipo molto cauto.

«Perché,» disse, lentamente. «Fino a questo momento, sono d'accordo con la politica di Arnold. Tu farai rovesciare la barca, uno di questi giorni, Bliss. A meno che non ti facciamo sloggiare prima.»

«Signor Hubble,» disse Mundin, con insistenza.

Hubble disse, in tono distratto:

«Caro signore, le assicuro che avrei votato per lei, se fossi stato un abitante del 27° distretto, ma grazie a Dio non ci abito.» I suoi occhi vagavano per la sala; si diresse verso un altro Titano. Mundin lo seguì, in tempo per sentire, «...è tutto molto idealistico, ne sono certo, mio caro Bliss. Ma troppi giovani idealisti si sono rivelati dei pessimi esecutori. Senza offesa, naturalmente.»

Bliss Hubble aveva perso un'altra volta. Mundin giudicò che quest'ultimo Titano fosse abbastanza in collera per potergli parlare; una vena pulsava visibilmente nella sua tempia arrossata. Mundin domandò, in tono di profonda disapprovazione:

«Il solito vecchio progetto, eh?»

Il Titano disse, sdegnato:

«Naturalmente. Pezzo d'idiota! Quando il giovane Hubble avrà visto tanti tentativi di salire sul carrozzone come ne ho visto io, ci penserà due volte, prima di rivolgersi a me con i suoi trucchetti. La faccenda del contratto! Proprio! Sta cercando di minare la fiducia di tutti noi nell'attuale direzione, vuole organizzare una nuova elezione, vuole corrompere qualcuno... oh, da gentiluomo, naturalmente!... vuole corrompere qualcuno per entrare nel consiglio di amministrazione, e poi fare tutti i danni che gli sarà possibile combinare. Ma, accidenti non ce la farà! Costituiamo un fronte solidissimo contro di lui...» I suoi occhi finalmente parvero concentrarsi su Mundin. «Ma non credo di conoscerla signore. Io sono Wilcox.»

«Felicissimo. Mundin. Avvocato.»

«Oh... è qui per procura eh? Chi rappresenta? Mi sembra che ci siano quasi tutti.»

«Mi scusi signor Wilcox.» Mundin seguì Bliss Hubble, che si era lasciato cadere su una poltrona, dopo un'altra sconfitta. Gli porse il suo mandato di rappresentanza a nome di Don Lavin, che Ryan gli aveva preparato.

«Eh? E questo cos'è?»

«Le suggerisco di leggerlo,» disse Mundin, brevemente.

Ci fu un breve crepitio di applausi, quando mezza dozzina di uomini entrarono nella sala. Uno di loro... Arnold?... disse:

«Buonasera, signori. Suggerirei di metterci tutti a sedere, e di procedere senza indugio.»

Mundin sedette accanto a Hubble, che stava leggendo, quasi meccanicamente. Uno dei nuovi arrivati cominciò a leggere in tono monotono i verbali dell'ultima assemblea. Nessuno gli prestò molta attenzione.

Hubble finì di leggere, restituì il documento a Mundin, e domandò, con un sorriso divertito.

«Secondo lei, dunque, che cosa dovrei fare?»

Mundin disse, seccamente;

«Sembra una sciocchezza, vero?»

La tattica funzionò. Sconcertato, Hubble disse:

«Non ho detto questo. E... be', ci sono state delle voci. Voci che lei può avere sentito, proprio come ho sentito io.»